Infinite volte nel corso dell’inverno, della primavera, e dell’estate che seguirono, tornai indietro a ciò che tra Micòl e me era accaduto (o meglio, non accaduto) dentro la carrozza prediletta dal vecchio Perotti.
Se quel pomeriggio di pioggia nel quale era terminata d’un tratto la luminosa estate di San Martino del ’38 io fossi riuscito perlomeno a dichiararmi
– pensavo con amarezza –, forse le cose, tra noi, sarebbero andate diversamente da come erano andate. Parlarle, baciarla: era allora, quando tutto ancora poteva succedere – non cessavo di ripetermi –, che avrei dovuto farlo!
E dimenticavo di chiedermi l’essenziale: se in quel momento supremo, unico, irrevocabile – un momento che, forse, aveva deciso della mia e della sua vita –, io fossi stato davvero in grado di tentare un gesto, una parola qualsiasi.
Lo sapevo già, allora, per esempio, di essermi innamorato veramente? Ebbene no, non lo sapevo. Non lo sapevo allora, e non l’avrei saputo per altre due settimane abbondanti, quando ormai il brutto tempo, divenuto stabile, aveva disperso senza rimedio la nostra occasionale compagnia.
Ricordo: la pioggia insistente, senza interruzioni per giorni e giorni – e dopo sarebbe stato inverno, il rigido, cupo inverno della Val Padana –, aveva subito reso improbabile ogni ulteriore frequentazione del giardino.
Eppure, nonostante il mutamento della stagione, tutto era continuato a procedere in maniera tale da illudermi che nulla in sostanza fosse cambiato.
Legge per noi: Giangiacomo Morozzo