Lo scorso gennaio ci ha inaspettatamente lasciati Vitaliano Trevisan, uno straordinario eclettico talento vicentino; è stato un attore, un regista, uno sceneggiatore, ma soprattutto uno scrittore tra i più letti e apprezzati del panorama letterario italiano contemporaneo.
Works, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 2016, è stato ristampato quest’anno per la stessa casa editrice ma in una nuova edizione ampliata con uno scritto inedito dal titolo Dove tutto ebbe inizio.
Il romanzo ha chiare tinte autobiografiche in quanto il protagonista potrebbe essere definito una sorta di alterego dello stesso Trevisan.
Il tema fondamentale è il rapporto dell’uomo con il lavoro: l’idea di una legittimazione etica e sociale che derivi proprio da un impiego lavorativo.
Il lettore legge di questo instancabile susseguirsi di impieghi per circa settecento pagine, tant’è che tutto ciò che non riguarda tale nucleo fondante (la vita sentimentale, ad esempio) viene escluso del tutto dall’imponente progetto narrativo, affinché trapeli chiaramente la volontà di confermare la tesi secondo cui l’individuo moderno può vivere solo ed esclusivamente in funzione del suo lavoro.
Se dunque l’unica vita che si può raccontare è quella dei lavori che si sono svolti nel corso della propria esistenza, è evidente che sarà necessario narrare in prima persona, sfruttando il meccanismo del patto autobiografico teorizzato dal celebre Philippe Lejeune.


Tutto ha inizio nel 1976, quando il protagonista sedicenne viene avviato al suo primo lavoro a seguito della richiesta di una bici nuova e performante per sostituire la vecchia bici di seconda mano che apparteneva alla sorella.
Il padre non esita a spedirlo in una fabbrica di gabbie per uccelli cosicché possa capire il valore del denaro che, a suo dire, manca sempre in casa.
Fa seguito a questa prima esperienza una vasta trafila di impieghi fino ad arrivare al 2002, anno in cui si licenzia dalla professione di portiere notturno in un albergo.
Ciò che lo spinge a compiere la fatidica azione sarà la firma di un contratto da sceneggiatore e da attore per il film Primo amore di Matteo Garrone, allora presentato in concorso al 54º Festival di Berlino.
«E mi diede da pensare tutta quell’ansia di realizzazione di se stessi attraverso il lavoro. Se è per questo mi dà da pensare in generale. Realizzare se stessi. Realizzare me stesso! E poi, una volta che mi sono realizzato, che dovrei fare, appendermi a una parete?, mettermi in esposizione su uno scaffale, o peggio su un piedistallo, o peggio ancora affittarmi un tanto all’ora per accomodarmi in qualche stupido salotto in compagnia di altri realizzati ed esporre le mie stupide opinioni su qualsiasi cosa?, oppure, e sarebbe il migliore dei casi, scagliarmi addosso un martello e chiedermi perché non parlo?»
Per Trevisan, dunque, la fine di questo lungo reiterarsi di impieghi spesso logoranti è rappresentata dall’approdo al mondo della scrittura.
Egli ha sempre saputo di voler scrivere, motivo per cui l’asettico e variegato report dei lavori effettuati diventa quasi una ricerca genealogica del proprio destino da letterato.
Non a caso la narrazione si interrompe proprio nel momento esatto in cui lui riesce a tutti gli effetti a fare il suo trionfale ingresso in questo mondo.
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