Un fil rouge lega Dogman (2023), il nuovo lavoro di Luc Besson, e l’omonimo film di Matteo Garrone, uscito nelle sale ormai ben cinque anni fa. Seppur le storie siano completamente diverse, entrambe le pellicole forniscono un quadro di umanità dipinto con i colori dell’invisibilità e con un tratto sofferente, stanco, sopraffatto, infine mortale, e reso luminoso quasi esclusivamente riconoscendo l’Altro nell’immagine del migliore amico dell’uomo.
Il film ha ottenuto la Graffetta d’Oro al miglior film all’80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove è stato presentato in anteprima, in concorso anche per il Leone d’oro.
Ciò che più colpisce è l’ottima regia di Dogman – colpisce fino a un certo punto, perché Besson non è certo l’ultimo arrivato – ricca di inquadrature che costituiscono una vera e propria sovrastruttura linguistica nella misura in cui parlano allo spettatore con non meno intensità di quanto faccia il carismatico protagonista del film, Doug (Caleb Landry Jones). Fra le moltissime inquadrature degne di nota, vale la pena sottolineare quella dall’alto verso il basso della scena finale, intrisa di simbolismo e misticismo.
Umanità fatta a brandelli
Dogman racconta, con la modalità narrativa del flashback, la vita di Doug. È lui stesso a raccontarla, in verità, accettando tutte le dolorose esperienze che lo hanno condotto sin lì, rinchiuso in una cella a parlare con la psicologa di turno, con cui riesce ad aprirsi completamente, scorgendone l’affine dolore.
Una cella è anche il punto d’inizio del racconto, o meglio, una gabbia: quella in cui viene gettato dal padre per aver dato da mangiare ai cani che quest’ultimo era solito affamare prima dei combattimenti, dove viene trattato a sua volta come un cane per essersi dimostrato gentile con loro, e ormai con lo stesso valore d’esistenza per suo padre, vale a dire il nulla.
Dopo aver visto la propria sensibilità fatta a brandelli dalla ferocia del padre, la tenera carne dell’infanzia strappata incurantemente trova il sincero affetto di chi non vuole niente in cambio, un amore incondizionato. Riesce nonostante tutto a mettere insiemi i pezzi di quella sensibilità, affinché possa essere indirizzata, lungo la strada, verso la cura dei più deboli, ringhiando ai soprusi e alle ingiustizie.
Non smettere di credere in qualcosa
«Un bambino prende l’affetto che trova»
(Douglas)
È proprio questo affetto trovato nei suoi amici cani che, diventando terapeutico, salvifico in un certo senso, riesce ad aiutarlo a credere di poter fare la differenza. Essere importanti per qualcuno è forse tanto fondamentale quanto avere qualcuno d’importante al nostro fianco, se non ancora di più.
La cura degli esseri viventi più fragili è ora la sua missione, fragili come lo era stato lui, esposto alla malvagità del mondo. Nella micro-dimensione dell’universo da lui costruito c’è soltanto amore da donare e da ricevere, perché certe famiglie ci scelgono; e lui lo sa meglio di chiunque altro.
Neanche l’escalation di violenza e morte sul finale riesce a fermarlo dall’avanzare verso la fede e la speranza, con volontà incrollabile e cuore aperto, perché mai bisogna smettere di credere in qualcosa.
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