Una stanza tutta per sé, presentato al Jerusalem Film Festival e giunto nelle sale cinematografiche italiane solo pochi mesi fa, è una produzione italo-israeliana del regista Matan Yair. Personalità estremamente poliedrica ma probabilmente ancora molto poco nota in Italia, Yair è un professore di lettere al liceo, oltre che romanziere e regista.
Una stanza tutta per sé è la storia del giovane diciassettenne Uri che si trova a fare i conti con il complesso passaggio alla vita adulta sullo sfondo dell’intricato scenario sociale israeliano.
In Israele, infatti, durante gli anni della scuola superiore i ragazzi devono prepararsi alla leva militare che ha una durata di 36 mesi, e Uri in questa circostanza si sente alquanto inquieto. A differenza di molti suoi coetanei, non ha mai vissuto con tanta audacia ed entusiasmo la possibilità di trascorrere qualche mese arruolato al servizio dello Stato.
Quando sopraggiunge il primo colloquio con l’esercito, Uri lascia trapelare tutte le sue incertezze e il suo carattere remissivo, e lo fa ammettendo che nell’ultimo periodo sta condividendo la camera da letto con sua madre. Il motivo di tale scelta è dettato dal fatto che la sua famiglia sta provando a fare i conti con l’abbandono della figura paterna. La donna vive una forte depressione manifestata, tra l’altro, nella scelta di non voler più dormire nella camera matrimoniale da sola.
Ovviamente la società israeliana non può tollerare che un giovane adulto come lui sia così sentimentale, al contrario ci si aspetterebbe dai maschi una certa emancipazione dall’universo familiare degli affetti.
La linea guida degli eventi segue dunque le vicissitudini del protagonista che deve gradualmente uscire dalla “sua stanza tutta per sé”, al contrario di quanto si narra nell’omonimo e celebre saggio di Virginia Woolf (A Room of One’s Own, 1929), nel quale la narratrice allude alla necessità – per una donna – di avere uno spazio tutto per sé in cui poter studiare.
Non è la prima volta che Matan Yair si confronta con dinamiche relative alla formazione, anzi molto spesso nelle sue opere ricorrono i temi della scuola e dell’adolescenza; in Una stanza tutta per sé, nello specifico, il percorso di formazione del giovane Uri risente della difficoltà di vivere i cambiamenti legati al processo di crescita, provando a districarsi dalle eccessive ingerenze del mondo esterno, in un percorso che – al contrario – dovrebbe essere intimo e riservato.
Uri, tra l’altro, vive una situazione simile a quella vissuta dal regista in età adolescenziale: anche lui ha dovuto affrontare la brusca perdita del padre e l’impossibilità di riconoscerne un sostituto in altre persone. Il protagonista del film, ad esempio, proverà a sovrapporre l’immagine del suo nuovo professore di educazione fisica all’immagine paterna ormai scomparsa, ma ben presto si renderà conto di quanto questo in realtà sia solo un vano tentativo di riacquisire qualcosa di ormai perso per sempre.
A Uri non resta che accettare il fatto di vivere in una società, quella israeliana, in cui non si sente totalmente integrato; nel momento in cui fallisce il colloquio per accedere alla leva militare, per quanto si possa sentire inizialmente sollevato, poi ben presto si renderà conto di essere un escluso. In Israele, infatti, la leva militare è un passaggio obbligato della crescita dei giovani, tant’è che non è consentito astenersi per motivi di coscienza.
L’ammissione nell’esercito, inoltre, è connessa a un altro passaggio fondamentale della crescita di un giovane israeliano, ovvero la gita a Treblinka, luogo in cui si trovava uno dei principali campi di sterminio nazisti durante la Shoah. Lo scopo di questo “viaggio di istruzione” è assumere piena coscienza della memoria dell’Olocausto. In verità Uri non avrà modo di effettuare neanche quest’altra esperienza, proprio perché è stato rifiutato alla leva.
Tutto ciò spinge il protagonista a porsi costanti interrogativi, non solo sul suo personale percorso, ma più in generale su quello di un qualsiasi ragazzo che vive e cresce in Israele oggi, attraverso un sapiente intreccio di vissuto individuale e collettivo.
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