La brutalità della banalità
Lars Von Trier non fa certo i cinepanettoni: Nymphomaniac, Melancholia o Antichrist sono opere di forte impatto, studiate, meditate. Ogni suo lavoro è un’esperienza, è cinema come dev’essere il cinema e come spesso – oh, troppo spesso – non è. Non riesci a distrarti, a mandare messaggini o a fare una telefonatina veloce.
I film che mi fanno veramente paura non sono gli horror, gli splatter o le serie alla C.S.I. troppo pompati, troppo eclatanti, ipersature. I film che mi fanno davvero paura raccontano la violenza delle persone normali, quelle che vedi ogni giorno e che non sospetteresti mai, la vicina di casa o lo sconosciuto così gentile, oh, così gentile.
Questo è uno di quei film. Alcuni passaggi sono spietati, angoscianti, non solo per la cruda violenza, ma anche e soprattutto perché raccontano una società indifferente alle sorti degli altri, una società in cui la solidarietà non esiste e dove se urli nessuno ti aiuterà.
Vi farei volentieri sentire un estratto, in cui l’assassino consente alla sua vittima di gridare, di chiedere aiuto, perché tanto, «in questo inferno di città, in questo inferno di Paese, in questo inferno di mondo, nessuno vuole aiutare!», però ho pensato che vi potrebbe venire una sincope e non voglio finire in cella.
La questione del titolo
Lungi da me la voglia e il tempo di rispolverare l’eterna querelle della traduzione dei titoli che vengono storpiati quando entrano nel nostro Paese, ma mi ci voglio soffermare perché La casa di Jack banalizza l’idea di fondo. Qui l’originale dice tutt’altra cosa, esprime un concetto fondamentale.
La casa di Jack suscita in me italofono l’immagine di una casa dove vive un certo Jack, di sua proprietà. E durante il film questa casa si vede pochissimo. Jack sta sempre fuori a uccidere gente, e i corpi vengono portati in una cella frigorifera abbandonata. La casa di Jack, signore e signori, è un titolo fuorviante.
The House That Jack Built è tutt’altra cosa. Jack progetta e cerca di costruire una casa. Con le sue mani. Dal niente. La tira su, e non contento la distrugge, poi ci riprova, cambia materiale da costruzione, pensa a un’altra struttura e ci riprova. Riuscirà a costruirla, quella casa? Pare di sì, visto che il verbo è al passato: La casa che Jack costruì, appunto. Quindi pare ci riesca.
E poi, guardate che meraviglia il titolo in originale:
Il mestiere di Jack
Lungi da me la voglia e il tempo di rispolverare l’eterna querelle tra ingegneri e architetti. Però qui è necessario parlarne un minuto. Jack è un ingegnere realizzato ma è anche un architetto fallito.
Nel senso che sì, è ingegnere, ma sognava di fare l’architetto. E le due cose paiono inconciliabili. La rigorosa applicazione di faticosi studi non va tanto d’accordo con la fantasia artistica più sfrenata.
A un certo punto, è lo stesso Jack a spiegarlo alla procace fidanzata Jacqueline Simple, che pare non afferrare il concetto: Un ingegnere legge la musica, un architetto suona la musica. E Jack è entrambe le cose. Ha l’ossessione della precisione ma si sente anche artista. E questo gli scinde l’anima.
Cita Blake, anche, il nostro simpatico Jack: The Lamb & The Lion. L’agnello e la tigre. Nell’uomo ci sono entrambe le nature. E come serial killer sceglierà il nickname da ingegnere, Mr Sophistication, mentre il lato artistico emergerà qua e là nell’esecuzione dei crimini.
L’attività principale di Jack
Comunque, l’attività principale del protagonista, di Jack, interpretato da un granitico Matt Dillon – che controlla voce, espressioni del viso e movimenti del corpo in maniera impeccabile – non è né saper costruire case né progettare splendide abitazioni.
L’attività principale dello straordinario Matt Dillon è uccidere la gente. Inizia quasi per caso, si può dire che viene istigato a farlo (Uma Thurman sempre posata, composta, elegante è la scelta perfetta). Dopo il primo “incidente” non riesce a smettere, Jack, non si pente, si lascia prendere la mano, a volte organizza tutto nei minimi dettagli, altre volte gli va a vacca e aumenta il numero delle vittime così, quasi per caso.
La giusta distanza tra piacere e dolore
Jack è anche affetto da OCD, da un disturbo ossessivo-compulsivo. Nell’elaborato, profondo e magnetico dialogo che ci accompagna per tutto il film (l’altra voce bassa e intensa è di Bruno Ganz) emergono le sue caratteristiche: egotismo, volgarità, maleducazione, impulsività, narcisismo, intelligenza, irrazionalità, manipolazione, umore altalenante, superiorità verbale.
Sarà pure uno psicotico, Jack, ma non uno stupido. Analizza con acume l’irrefrenabile impulso di uccidere. Per spiegarlo, Lars Von Trier usa un’animazione chiarissima:
Jack è come l’uomo che cammina tra due lampioni: quando si trova sotto uno di essi, non ha ombre. È felice. Si sente forte e soddisfatto.
Ha appena ucciso. Appena comincia a camminare, si allontana da quel momento di felicità e l’ombra generata dal lampione è il piacere che cresce, ma il lampione successivo crea un’altra ombra, quella del dolore, che cresce sempre di più fino a far scomparire quella del piacere, e che si annullerà soltanto quando l’uomo si troverà sotto la fonte di luce.
Per questo motivo deve continuare a uccidere.
L’inferno
E poi c’è il magistrale ribaltamento del dialogo iniziale, le parti si invertono, le battute sono le stesse ma ora a chiedere è un Jack che indossa la vestaglia rossa con cappuccio rubata all’ultima vittima, e a rispondere alle domande è Verge.
Virgilio accompagna Dante all’Inferno nella sua catabasi. Sì, perché il film termina in modo completamente diverso, con immagini coloratissime, inquietanti, il banale lascia il posto al sovrannaturale.
Guardate qui il frame della traversata in barca con Caronte, ammirate l’elegantissimo Virgilio in questo mix perfettamente riuscito tra La zattera della Medusa di Théodore Géricault e una fotografia di David LaChapelle.
Altro non svelerò. Preparate i vostri stomaci a due ore e mezza di violenza («aggressioni sessuali, violenza domestica, violenza sugli animali, luci stroboscopiche e immagini esplicite di ferite», così recita l’avvertenza iniziale, su Mubi) e godetevi un cinema che si fa troppo, troppo raro.
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