Gli anni Ottanta colorati, patinati, eccentrici, Kitsch, metallici, di plastica rappresentano quel periodo in cui l’immagine è al centro della comunicazione, il pop esplode e prevarica tutte le altre correnti culturali, la tecnologia inizia a diventare di massa, quasi un “prêt-à-porter” per la maggior parte delle persone.
Questi anni solo al centro dello sguardo acuto e tagliente della svizzera Sylvie Fleury che proprio dalla fine di quegli anni inizia le sue poliedriche performance artistiche impiegando pittura, scultura, neon e video. Oltretutto Sylvie Fleury è anche brillante scrittrice e saggista. Lei si definisce «una femminista punk sotto mentite spoglie», mentre la critica ha definito il suo lavoro «post-appropriazionista».
La Pinacoteca Agnelli del Lingotto di Torino ha presentato la sua mostra Turn me on, curata da Sarah Cosulich e Lucrezia Calabrò, con un percorso esaustivo e profondo su tutta la lunga opera della Fleury.
Una rassegna che richiama tutti i simboli e i materiali dagli anni Ottanta in poi e facilmente riconoscibili da chi li ha vissuti perché toccano le corde del ricordo. Sembra quasi che l’artista li presenti con spirito accondiscendente, con entusiasmo e ammirazione, ma ci si accorge subito che questa precisa esposizione è una pungente e feroce critica al consumismo, gli oggetti spesso diventano feticci e gli stereotipi del corpo femminile di quel periodo spesso vengono accostati agli emblemi maschili di auto, motori e velocità.
Ancora più forte è stato il legame con la struttura della Pinacoteca Agnelli a cui il visitatore accede dopo aver transitato tra i brulicanti negozi del centro commerciale del Lingotto e con la struttura della stessa Pinacoteca che è allestita su più piani fino ad arrivare nel tetto in cui si trova la Pista500, il circuito che la Fiat usava per il collaudo delle auto.
Teche di vetro sottolineano la preziosità degli oggetti: le manette dorate firmate Gucci, l’asciugacapelli – anche questo dorato – a forma di pistola, diaboliche scarpe con tacchi a spillo tempestate di affilati puntoni, ma anche riviste di moda e preparati dimagranti dell’epoca custoditi come reliquie. La grande scritta al neon sulla parete però recita: «please, no more of that kind di stuff» (per favore, niente più cose del genere).
I televisori catodici trasmettono donne con i tacchi che camminano sopra le famose Squares di Carl Andre (pavimenti con grandi piastrelle quadrate), mentre l’angusta entrata di una spelonca conduce a una saletta interamente tappezzata di pelliccia sintetica bianca alle cui pareti sono appesi quadri che contengono fazzoletti in cui la Fleury ha scritto a macchina titoli e scene di film hollywoodiani.
La grande gabbia dorata, le cui sbarre sono state forzate, sta al centro di una stanza la cui carta da parati presenta simmetriche strisce verticali richiamando l’opera di Daniel Buren che la Fleury dissacra aprendole e interrompendole nella loro andatura.


C’è spazio anche per la fantascienza che domina il cinema e la cultura di massa con effetti speciali sempre più efficaci. Hight heels on the moon è la famosa scritta al neon che presenta lo spazio galattico da sempre appannaggio degli uomini, come i motori.
La Fleury traduce e fa scontrare i simboli maschili e femminili: grandi navicelle spaziali di pelliccia bianca che diventano falli, il motore di un’auto si fa d’argento, le pareti presentano fiamme color fucsia, altri missili di gommapiuma sono appoggiati alla parete ormai sgonfi e privi di turgidità.
Il tema dei motori, prerogativa maschile e sempre accompagnato dall’avvenenza fisica femminile nelle riviste, è caro alla Fleury e l’ha accompagnata per tutta la carriera tanto che negli anni Novanta fonda il fan club automobilistico She-Devil on Wheels (Lei, diavolo su ruote) rigorosamente aperto a sole donne.
Il mondo dell’automobilismo è tradotto in modo originale con opere d’arte dissacranti come le tute da pilota di Formula 1 personalizzate come lunghi cappotti e fodera decorata con fiamme, pezzi di carrozzerie di auto dipinti con colori shocking così come accade anche ai barili di olio e alle gomme che si colorano d’oro.
Nei video proiettati c’è la stessa Fleury che guida stringendo tra le ginocchia una bottiglia di Coca-Cola o un pacchetto di sigarette, ma anche donne in motocicletta che sparano sulle borse Chanel.
Imbrigliare la Fleury in etichette artistiche è impossibile. Pur intravedendo segni di Minimalismo, Pop Art e arte Concettuale nessun movimento la racchiude e la definisce.
Si muove con disinvoltura e piena autonomia nell’interpretazione profonda e persino cattiva degli stereotipi contemporanei soprattutto quelli femminili dedicati alla moda e alla concezione della figura dell’artista. Rompe le regole, ma regala opere apparentemente effimere e oniriche che prima sorprendono e poi denunciano la nostra idolatria consumistica.
La Fleury ci permette di vedere gli oggetti consueti da un’altra prospettiva, li arricchisce di significati plurimi e diversificati e scende in profondità verso il loro valore intrinseco e, ancor di più, agisce sul nostro subconscio di accumulatori seriali di oggetti intesi come simbolo di benessere e buon livello sociale, analizza il confine tra desiderio e inutile collezionismo compulsivo.
Il suo intento sembra quello di far colloquiare la moda con l’arte, ma attraverso le sue creazioni ci spiega come questo dialogo sia improbabile: la moda ci dà l’oggetto da vedere, ma l’arte regala l’esperienza estetica.
Sylvie Fleury è nata nel 1961 a Ginevra dove abita e lavora. Ha iniziato a esporre negli anni Novanta alla Neue Galerie am Landesmuseum di Graz, al Le Consortium di Dijon, al MAMCO di Ginevra, al Migros Museum für Gegenwartskunst di Zurigo, al Museum für Neue Kunst/ZKM di Karlsruhe, al CAC di Málaga.
La prima personale italiana dal titolo Chaussures italiennes è stata presentata all’Istituto Svizzero di Roma nel 2019 dove sono state esposte le sue opere più emblematiche e la scarpiera, a cui fa riferimento il titolo della mostra, che conservava le stravaganti scarpe, tutte rigorosamente con il tacco, che l’artista ha indossato per i vernissage delle sue mostre e per i suoi video.
Nel 1993 ha partecipato alla Biennale di Venezia e, nel 1998, a quella di San Paolo. A essersi assicurati le sue opere in mostra permanente sono il Museum of Modern Art di New York, il Daimler Contemporary di Berlino, il Migros Museum für Gegenwartskunst di Zurigo, il MAMCO di Ginevra, il Museum of Applied Arts/Contemporary Art di Vienna e il Bass Art Museum di Miami.
Dopo la mostra alla Pinacoteca Agnelli, fino al 2 aprile sarà impegnata ad Uster (Svizzera) con Double Positive dove ha installato tutto il suo guardaroba degli ultimi 30 anni su appendini.
Come scrittrice ha pubblicato: Parkett con Jason Rhoades e James Rosenquist, First Spaceship on Venus and Other Vehicles e Some kind of heaven.
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