Quando la fotografia documentaristica diventa arte e umanità
Steve McCurry, nato il 23 aprile del 1950 nei sobborghi di Filadelfia, è uno dei fotografi più conosciuti e amati dal grande pubblico e colui che da oltre trent’anni viene considerato il maestro della fotografia a colori contemporanea.
Inizia da giovane a studiare fotografia e cinema, ma poi si laurea in Cinematografia e Teatro all’Università della Pennsylvania e con la macchina fotografica sempre in mano inizia a lavorare al giornale “Today’s Post” per alcuni anni fino alla decisione di fare di questa passione il suo vero lavoro: parte per l’India come fotografo freelance, se ne va in esplorazione con solo uno zaino in spalla pieno di rullini finché non raggiunge il confine con il Pakistan, dove si unisce a un gruppo di rifugiati divenuti suoi amici.


Nel momento in cui la Russia invadeva l’Afghanistan e negava l’accesso ai giornalisti stranieri, lui si traveste e supera il confine rimanendo per molti mesi con i Mujahiddin a documentare il conflitto. Con le sue fotografie pubblicate dalle più importanti testate giornalistiche, è stato l’unico fotoreporter a raccontare all’Occidente cosa stava accadendo in Afghanistan.
McCurry continua a vagare per il mondo immortalando non solo guerre ed eventi catastrofici, ma anche luoghi sconosciuti, tradizioni antiche e momenti di vita quotidiana di popoli pressoché ignoti.
La mostra itinerante Icons, che si è tenuta questa estate a Villa Mussolini di Riccione, è stata uno straordinario strumento per conoscere da vicino questo artista, ma soprattutto l’uomo. Merito anche di chi l’ha “pensata” e cioè un grande nome come Biba Giacchetti che ha fatto della divulgazione fotografica il suo mestiere e la sua missione.
Un’esposizione con tante opere e un catalogo che regalano al visitatore un vero incontro con Steve McCurry. La mostra nasce da una loro chiacchierata sulle fotografie del grande maestro e viene offerta al pubblico con un nuovo tipo di audioguida: quella del racconto. Siamo ormai abituati a servirci di questi strumenti ogni volta che decidiamo di visitare un museo o una mostra, ma stavolta non c’è un’asettica voce narrante a guidarci tra le opere e la loro storia, ma lo stesso autore.
È la voce di McCurry che racconta ogni foto, il momento in cui l’ha scattata, la situazione in cui si è trovato, la persona che aveva davanti e così via. La voce di un uomo in cui la passione, le avventure, la meticolosità che mette nel suo lavoro, lascia spesso spazio alla partecipazione affettiva ricordando i momenti e le persone che ha immortalato.






Quasi delle piccole “annotazioni a margine”, personali e immediate (tutte hanno una durata di circa un minuto) che hanno il grande merito di far sentire McCurry come un vecchio amico con cui conversare, la capacità di creare familiarità con l’artista.
Soprattutto, però, la sua narrazione ha il grande merito di farci vivere quell’istante che ha catturato, catapultarci in una storia e in un paese lontano in cui pare quasi di essere presenti e di averlo vissuto sulla propria pelle.
Le fotografie guardate sotto la sua guida diventano ancora più spettacolari. Sono magnetiche, immediate, vivide e ricche di partecipazione umana. McCurry riesce a carpire l’anima delle persone che raffigura, la loro dignità, che siano emarginati per povertà e guerra o che siano di alto rango sociale non cambia nulla, ritrae sempre il loro spirito più intimo e profondo.
Ha la capacità di fotografare i soggetti con empatia, con la complicità emotiva di chi si pone al loro fianco e ne vive le stesse emozioni. Quella medesima complicità che si avverte quando il fotografo statunitense coglie momenti di semplice quotidianità che diventano incredibili affreschi di movimenti, profumi e sensazioni, come pure quella luce dei tanti paesaggi naturali di cui ne studia i riflessi, le sfumature, la violenza e la delicatezza, della cui bellezza ci rende istintivamente partecipi.
Ha fatto della fotografia documentaristica un’arte più fine e profonda rispetto al passato andando oltre l’immagine contingente della realtà, realizzando fotografie capaci di parlare di ciò che sta dietro lo scatto, facendo conoscere con il semplice ritratto fotografico intere storie di uomini, donne, bambini lontani dalle abitudini occidentali.
Come dice lo stesso McCurry, la fotografia è soprattutto pazienza nel trovare l’attimo giusto. A volte gli è servito ritornare nello stesso luogo più volte per fotografarlo con la luce adeguata; altre, invece, è stato un istante da carpire o addirittura un colpo di fortuna. In diverse occasioni ha raccontato gli incontri con le persone, le amicizie nate, le situazioni ora buffe, ora pericolose che ha vissuto.
Da questi aneddoti emerge un uomo capace di stupirsi di fronte alla vita di persone a cui ruba istanti ed emozioni con la sua macchina fotografica.
Come abbiamo detto, se per alcune fotografie l’attesa si rivela interminabile, paziente, quasi maniacale, in altre è immediata, come succede quando immortala la vita in un mercato o in una via di una città asiatica, o quando ruba il secondo esatto in cui un treno passa in un luogo dove ormai la ferrovia non esiste più.






A queste si uniscono le tante immagini dei bambini che giocano tra le rovine dei bombardamenti o a fianco di carrarmati senza perdere la loro voglia di divertirsi e che McCurry carpisce nei loro volti solari con occhi che parlano di vita.
Anche la fotografia del famoso Taj Mahal, immortalato nel riflesso in un fiume dove un uomo si bagna, sembra studiata a lungo, invece è nata da un inconveniente: l’uomo che lo stava trasportando sulla barca aveva perso le chiavi nel fiume ed era intento a cercarle nell’acqua in cui si specchiava il Taj Mahal, così McCurry ha visto in quel momento un’immagine originale del maestoso mausoleo e ha realizzato uno scatto del tutto inconsueto.
La foto dei quattro monaci buddisti che stanno camminando sotto un’improvvisa pioggia battente ad Angkor, in Cambogia, sembra una scena progettata a tavolino tanto è perfetta, ma è frutto di un attimo rubato, così come le donne strette in gruppo durante una tempesta di polvere a Rajasthan, in India, le quali, con i loro abiti rossi, sembrano trasformare un momento di paura in una danza leggera.
Tra le opere più famose di McCurry c’è la Ragazza afgana, la dodicenne dagli occhi verdi e profondi fotografata in un campo profughi del Pakistan nel 1984 e considerata «la fotografia più riconosciuta in oltre 100 anni di uscite di National Geographic».
Questa è una di quelle foto scattate in un attimo: lui con la macchina fotografica in mano tra i rifugiati, e la bambina che gli lancia uno sguardo spaventato. Per oltre vent’anni Steve McCurry non ha saputo chi fosse l’enigmatica fanciulla impaurita, ma il successo mondiale di questa foto ha reso la bambina un’icona di quel momento storico e dell’intera sua opera fotografica, quasi una Monna Lisa del nostro secolo.
Il fotografo, che non ha mai smesso di cercarne notizie, ha scoperto il nome della ragazza solo nel 2002: Sharbat Gula, che ancora oggi vive in condizioni non ottimali per le ostilità in corso.
Steve McCurry ha sempre fotografato con la Kodachrome fino al 2010, quando la Kodak ha deciso di non produrre più la pellicola tradizionale e di regalare l’ultimo rullino proprio a McCurry in una piccola cerimonia di commiato. Il fotografo lo ha usato per un progetto che ha riunito scatti molto diversi tra loro, dai ritratti, tra cui quello di Robert De Niro, alle città, ai monumenti, fino ai momenti di quotidianità cittadina.
L’abbandono della pellicola è stato un passo che ha traghettato il fotografo americano verso gli apparecchi digitali senza troppi rimpianti. Anzi, lui stesso ha confessato che di questi ne apprezza molto la duttilità e la semplicità con cui può lavorare.
Ha vinto i premi più prestigiosi della fotografia: il Robert Capa Gold Medal e il premio della National Press Photographers. Per ben quattro volte ha ricevuto il World Press Photo e lavorato per le riviste Time, Life, Newsweek, Geo e il National Geographic. I libri pubblicati sono in continua crescita, così come le mostre che ancora si rincorrono in giro per il mondo attirando un continuo flusso di visitatori.
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