Saint Omer

Saint Omer:
Una tragedia greca nella contemporaneità

Il mese di dicembre ha visto l’uscita di Saint Omer, opera prima (se si escludono documentari e docufilm) della regista Alice Diop, che mette in scena tutte le ombre che possono celarsi nell’animo umano, ispirandosi a fatti realmente accaduti. In concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ‘22, si è aggiudicata ben due riconoscimenti: il Leone d’argento e il Leone del futuro.

Nella pellicola si intrecciano le storie della scrittrice Rama e di Laurence Coly, a processo per la colpa più orrenda della quale un genitore si possa macchiare, ovvero il figlicidio.

Saint Omer

L’intreccio inestricabile fra madre e figlia

Un dramma giudiziario crudo e diretto, ripulito da ogni sovrastruttura narrativa e da tutti quei sensazionalismi che solitamente adornano i legal drama, in particolare di certa cinematografia d’oltreoceano, e che finiscono per sbiadire la ragion d’essere del tema che viene trattato. In questo caso, il legame affettivo inesauribile fra una madre e la propria figlia, anche quando passa attraverso il dolore e la morte.

Un tema che diviene, gradualmente, il leitmotiv che lega le vicende personali delle due protagoniste. Sia perché Rama porta un figlio in grembo, sia perché il rapporto con la propria madre non è mai stato emotivamente solido. Il processo e le testimonianze saranno il canale attraverso cui lasciar sfogare i dubbi sul significato di essere una madre e altresì sul significato di essere una figlia.

La risposta personale e soggettiva a cui entrambe perverranno, come si può immaginare, non è semplice né immune alle sofferenze che certe prese di coscienza si trascinano dietro.

Saint Omer - Screenshot tratto dal film

Saint Omer: un processo maieutico

Saint Omer restituisce allo spettatore un affresco neutro di una storia tragica, direzionando, in modo netto ma non ingombrante, l’attenzione sui dettagli emotivi.

I primi piani frequenti di Alice Diop sono estenuanti, faticosi da digerire, perché riescono a catturare tutto il dolore e a lanciarlo fuori dallo schermo. Quel dolore, vestito indistintamente da senso di colpa e da un odio apatico, trasuda dagli occhi spenti di Laurence Coly.

Nello scambio di battute iniziali con la giudice, lo scollamento tra il fatto e la motivazione suggerisce l’estraniazione della protagonista dalla realtà. Non c’è consapevolezza delle proprie intenzioni, ma soltanto la presa d’atto di ciò che è palese, ossia la morte della figlia.

Giudice: «Lei sa perché ha ucciso sua figlia?»

Laurence: «Non saprei. Spero che questo processo possa dirmelo.»

In tal senso, il processo assume una funzione rivelatrice. Le domande incalzanti e indelicate dell’accusa, quelle più comprensive e “terapeutiche” della propria difesa, le testimonianze: tutto può essere letto – metaforicamente parlando – come un aiuto di tipo “maieutico”, finalizzato alla ricerca di una verità nascosta in profondità.

Sul finire del processo gli occhi spenti si accendono di lacrime, perché l’inscindibile rapporto con la figlia passa anche dall’accettazione di avere una consistente parte di responsabilità emotivo-morale – oltre a tutta quella penale – nella morte della figlia. Le responsabilità indirette – e ce ne sono diverse – alle quali si era aggrappata così saldamente cessano di fornirle un appiglio, e a lei non resta che precipitare nell’abisso della disperazione.

Saint Omer - Screenshot tratto dal film

Una tragedia greca nella contemporaneità

Le responsabilità, in Saint Omer, sono certamente importanti ai fini della storia, ma ancor di più lo sono il percorso di consapevolezza di Laurence Coly e la relazione inestricabile fra una madre e la propria figlia, sia emotivamente che biologicamente.

È infatti interessante che il processo metta a nudo anche le fragilità di Rama, i suoi dubbi sul complicato rapporto con la madre, le paure legate alla possibilità di compiere terribili azioni sul figlio che porta in grembo. Non ultimo, si ricrede sull’idea di scrivere un libro sul processo rappresentando Laurence Coly come una moderna Medea, figura appartenente alla mitologia greca.

La Medea di Euripide è infatti una tragedia che ci dice molto sulle intenzioni esplicite e sulle inclinazioni che segnano la discesa nella follia. Ma non ci dice alcunché sulle intenzioni implicite né su quanto sia straziante che un legame indissolubile rimanga tale anche dopo la scomparsa dell’atomo affettivo a cui si era legati.

Se, nel nostro caso, il teatro che ospita la rappresentazione tragica è il tribunale di Saint Omer, la tragedia che viene messa in scena sfugge dall’assegnazione di colpe definite e da morali conclusive che invitino lo spettatore ad adottare buone condotte di comportamento.

La “realtà” dei comportamenti umani è sommersa e non basta riprodurla per comprenderne il significato né è sufficiente assegnare giudizi di valore per liberarsi la coscienza dal peso di sapere ciò che l’essere umano è in grado di fare.


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