Anna Maria Ortese, una delle maggiori voci letterarie italiane del secondo Novecento, è divenuta popolare soprattutto a partire dalla raccolta di racconti Il mare non bagna Napoli (1953). Questo libro l’ha consacrata come l’autrice neorealista che ha fatto del documento di cronaca e della polemica sociale la sua peculiare cifra stilistica. Eppure anche se la sua produzione appare – almeno ad un primo sommario approccio – intrisa di quel realismo crudo che mira a gettare una luce sulle aberranti e ignobili condizioni di vita del secondo dopoguerra, ben presto ci si accorge che i suddetti elementi sono corrosi da una visionarietà quasi allucinata, fino all’approdo a soluzioni liriche e fantastiche ben lontane dalla consueta oggettività neorealistica.
Con il romanzo L’Iguana – che oggi dà il titolo all’omonimo premio letterario italiano indetto nel 2018 – la scrittrice azzarda una mossa innovativa, catapultandosi nel real meravilloso; il romanzo, infatti, pur introducendo una vicenda che parrebbe attinente alla dimensione del reale, risulta pervaso da un tono pienamente fiabesco: il ricco conte milanese Aleardo di Grees è partito, come ogni anno, alla ricerca di nuove terre inesplorate per investire il suo denaro nella costruzione di splendide ville e alberghi di lusso che serviranno a ospitare l’annoiata aristocrazia lombarda. A un certo punto del suo viaggio, si imbatte in un’isola desolata dalla forma strana che non risulta segnalata sulle carte nautiche.
Il luogo sembra quasi imbrigliato in un tempo sospeso e parrebbe essere abitato solo da tre fratelli – gli ultimi discendenti di una nobile famiglia portoghese decaduta – e dalla loro serva che si scoprirà essere una grande Iguana verde, destinata dai fratelli Guzman ai più umili lavori domestici. Questo personaggio conferisce all’intera narrazione una tonalità surreale e quasi tragica, che ricorda molto da vicino l’aria che si respira ne La metamorfosi di Franz Kafka.
Il lettore ben presto verrà a conoscenza del terribile segreto che l’Iguana porta con sé: anni prima questa donna-rettile amava Ilario, il più giovane dei tre fratelli, e ne era da lui riamata come figlia prediletta… insomma un affetto che non le faceva percepire la sua diversità di specie. Da un giorno all’altro tutto ciò giunge al termine poiché Ilario la accusa di avergli rovinato gli anni migliori con la sua dozzinale bestialità.
Da allora l’Iguana vive in uno stato di completa reclusione, in quanto Ilario, con l’intenzione di voler adeguare il suo comportamento ai valori di esclusione del diverso, la getta in uno stato di profonda depressione finché non giungerà, dopo un ingente sacrificio, la salvezza della piccola ragazza-rettile che tornerà ad avere le fattezze di una fanciulla.
Il finale tragico e maestoso è un chiaro esempio del ruolo che la letteratura deve ricoprire secondo Ortese: per questa scrittrice, la sua funzione è quella di consentire all’essere umano di avere piena coscienza del portato di orrore che normalmente si cela sotto i comuni paradigmi di realtà e storia, e per farlo essa può avvalersi del cosiddetto realismo magico.
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