«Le parole sono nomadi. Sono affascinanti proprio perché cambiano continuamente di significato, specie nei dialetti. La bellezza degli idiomi locali è la loro mobilità. Per questo uso spesso il dialetto: è una rivincita. Perché il dialetto non va a morire, riemergerà, dal disastro del capitalismo, nelle isole spontanee dei contadini, dei pescatori e di chi lo sceglierà».
Fabrizio De André
Così diceva il cantautore-poeta Fabrizio De André, in un contributo che ho trovato citato nello “Spazio Faber” nel centro storico di Tempio Pausania, in Gallura.
Le lingue minoritarie sono dialetti che hanno conservato la propria specificità, sono state codificate, si sono contaminate nel tempo, a seconda delle dominazioni storiche dei luoghi, ma restano vive grazie all’uso e a una certa difesa. Difesa di confini territoriali, anzi tutto.
Questo non deve sembrare un discorso retrogrado, poiché i confini spesso e volentieri sono naturali e difficili da valicare: come un mare, o un massiccio montuoso molto aspro. Anche per questo (non solo) accade che in un’isola si parli un Sardo incomprensibile e in una vallata montana un Ladino estraneo agli abitanti di uffici ministeriali di una grande capitale. E tutto ciò, anche se politicamente irrilevante (o rilevante, a seconda della ricchezza della Regione), è naturalmente incontrastabile.
Vivo in Val di Fassa, in una delle valli della cosiddetta Ladinia. Mi sono così rapportata al Ladino non per vezzo ma per necessità. Una lingua parlata e insegnata nelle scuole primarie, incoraggiata negli asili nido. Il Ladino è una lingua reto-romanza, nata dall’incontro dei Romani con le popolazioni del crinale alpino.
Vicina al Tedesco per alcune aree ladine, per altre con il Friulano con cui è imparentata, per alcuni versi è comprensibile grazie alle sue radici latine, comparabili con altre lingue neolatine, mentre per altri è davvero estranea e va appresa con studio e pratica. Oggi nelle vallate intorno al massiccio del Sella si parla un Ladino di volta in volta diverso da quello codificato come standard e nella stessa val di Fassa è diverso a seconda della posizione geografica.
In alta valle, ad esempio, si parla il ladino Cazet che è preso come standard perché più rappresentativo delle sue particolarità. Siamo nella zona di Canazei, da Penia (la frazione più a nord e vicina al Sella) fino a Mazzin di Fassa. Qui le parole tendono a conservare la -s finale che altrove cade e ad avere la a tonica latina trasformata in e aperta: lèna (lana), fascèna (fassana), cèsa (casa). In bassa valle è lana, fasciana, ciasa.
A metà valle, da Mazzin di Fassa (dove evidentemente vigono i due dialetti) fino a Pozza e Soraga di Fassa si parla il Brach, con i femminili che non hanno il plurale distintivo e la a tonica invece della e. A Moena e dintorni si parla il Ladino Moenat caratterizzato dalla riduzione dei dittonghi ou e ei in oi, ad esempio in una oita, al posto di una outa (una volta), dalle a invece delle e aperte e altre particolarità meno conservative. Per i valligiani più duri e fieri l’abitante di Moena non è neanche un vero ladino, poveretto.
Così, se da una parte viene da sorridere sulle differenze che i fassani danno alla loro lingua e a chi la parla, dall’altra viene da pensare che la conservazione di un idioma avviene proprio perché perdurano certe tradizioni, usanze, modi di pensare, oltre al fatto che si incentivi questa protezione con sovvenzioni economiche.
Per esempio, gli abitanti hanno soprannomi a seconda che vivano più al sole come quelli di Vigo (detti Siores, i signori, perché più fortunati) o più in alto, in montagna, come quelli di Penìa (i Beles, le ernie per il duro lavoro agricolo); le preposizioni di luogo cambiano a seconda che si vada verso giù (ja Moena) o verso su (sun Sela), perché in montagna si va sempre o in discesa o in salita!
Ma le particolarità sono troppe per ricordarle a memoria. La lingua definisce alcuni modi di pensare, per così dire tradizionali, ma viene anche arricchita di parole italiane contemporanee “ladinizzate”: codificata in dizionario e grammatica.
Dunque, trovandomi in quella terra da “aliena”, come recita una famosa canzone di Sting, rifletto spesso su quanto l’eredità delle tradizioni data alle nuove generazioni sia importante, anche se a volte non sinceramente sentita. Dagli usi e dai costumi dipendono molte parole di questa lingua che definisce uno stile di vita “montano”, ma anche legato a politiche ed economie sorpassate.
Valgono anche oggi in queste località turistiche aperte al mondo? È antistorico rivendicare le giurisdizioni locali, anche se limitate territorialmente? Quali compromessi si possono accettare per vivere felicemente nel bilinguismo (o trilinguismo) culturale e valoriale?
Spero sinceramente che il futuro sarà fatto di tanti dialetti e lingue ricchi di significati, piuttosto che di monolingue semplificate per una più agile comprensione affidata alla tecnologia. Chissà se De André avrà avuto ragione (e qualcuno ancora ascolterà, con qualsiasi mezzo, i suoi dischi).
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