Certi film sono così densi di materia magica, dalle atmosfere ai dialoghi, dalla fotografia alla colonna sonora, che non si può far altro che rimarne incantati per tutta la durata. Gli spiriti dell’isola (2022) rientra senza dubbio alcuno in questa categoria.
La pellicola di Martin McDonagh, regista di primissimo livello che nel suo albo può vantare altri eccellenti lavori come In Bruges – La coscienza dell’assassino (2008) e Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017), ha ottenuto ben nove nomination agli Oscar che si terranno a metà marzo, fra le quali miglior film e miglior regista.
McDonagh rimane fedele alla commistione di intelligente cinismo e sottile ironia, con lievi venature di grottesco, che ha fatto del suo stile un vero e proprio marchio di fabbrica. L’ambiente geografico e sociale della pellicola si presta perfettamente, e anzi accentua quest’impronta eterogenea.
Gli spiriti dell’isola – La moneta essenziale è il tempo
Il punto di partenza è in realtà la conclusione alla quale giunge Colm Doherty (un eccezionale Brendan Gleeson), che decide di non trascorrere più del tempo con quello che fino al giorno prima era il compagno di bevute Pádraic Súilleabháin (un altrettanto eccezionale Colin Farrell).
È il 1923 e la Guerra civile irlandese, dipinta sapientemente quasi da renderla invisibile, fa da sfondo alla storia che si svolge nell’isoletta immaginaria di Inisherin (da lì il titolo originale, The Banshees of Inisherin) e che ruota attorno alla fine di un’amicizia.
Il tempo è la moneta più essenziale nel mercato dell’esistenza, e Colm non è più disposto a scambiarlo con quello di Pádraic. Troppe giornate passate a sentirlo parlare del niente di fronte a una pinta di birra gli hanno impedito, e continuerebbero a impedirgli, di comporre musica da consegnare all’eternità.
Allontanamento e riconquista sono i termini di una risoluzione che non lascia spazio per compromessi. Se Colm vuole investire gli ultimi anni di vita su ciò che gli garantirebbe una morte più serena, Pádraic non sa che farsene del suo tempo, e soprattutto non accetta che l’ormai ex amico lo abbia completamente escluso dalla propria vita.
Chi non regala il proprio tempo è invece lo spettatore, perché la brillante sceneggiatura de Gli spiriti dell’isola nutre una storia “scarna”, rendendo necessario ogni minuto delle quasi due ore complessive. Sembra quasi di viverci da sempre su quell’isola, di sentire il peso dei giorni che scorrono instancabili, ciascuno esattamente uguale agli altri.
Tutti siamo soli
Oltre al tempo, è la solitudine a scandire le vite di ciascuno dei protagonisti. Nel teatro che è l’isola, tutti sono niente più che comparse nelle vite degli altri, immobilizzati nello stesso pub, lungo le stesse strade, davanti alle stesse chiacchiere.
Tutti, anche se in compagnia, sono profondamenti soli. Soli con la propria musica, soli nei mondi letterari, soli con i tormenti, soli per scelta propria, o per scelta altrui. Soli perché si viene dati per scontati, o perché nessuno ci capisce. Infine, soli anche se si è troppo stupidi per comprenderlo minimamente.
Colm lo comprende, così come lo comprende Siobhán (Kerry Condon), la sorella di Pádraic. Tanto vale ubriacarsi di solitudine e musica, oppure andare via da quell’isola che è metafora perfetta della condizione umana.
Soltanto alla fine lo comprende pure Pádraic, quando la distanza che aveva dalla consapevolezza di essere realmente solo viene coperta da un dolore troppo grande. La fase dell’ingenuità termina improvvisamente, lasciando ferite profonde che nessuna amicizia potrà lenire.
Gli spiriti dell’isola racconta sì del tempo e della solitudine, ma lo fa attraverso la presa di coscienza che si matura in seguito al tocco – o al lamento – della morte, diretto, indiretto o immaginario che sia.
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