Copertina de Everything Everywhere All at Once

Everything Everywhere All at Once

Everything Everywhere All at Once è il film cartello degli Oscar di questo 2023, essendosi aggiudicato tantissimi premi. L’opera di Daniel Kwan e Daniel Scheinert (nome d’arte: The Daniels) si è aggiudicata ben sette Premi Oscar: miglior film, miglior regia, miglior attrice (Michelle Yeoh), miglior attore non protagonista (Ke Huy Quan), miglior attrice non protagonista (Jamie Lee Curtis), miglior sceneggiatura originale e miglior montaggio.

Quella che sarebbe stata una storia di conflitti familiari irrisolti, disagi interiori ed espedienti quotidiani per sbarcare il lunario, alimentati da frustrazione, apatia e insoddisfazione, si trasforma, diventandone iperbole, in uno scontro multiversale fra versioni alternative di se stessi. Gli schieramenti che si contendono la vittoria vogliono, rispettivamente, annichilire il multiverso e impedire invece che questo accada.

Everything Everywhere All at Once - Screen tratto dal film

Molto più che fantascienza

In assoluto, gli elementi narrativi ed estetici definiscono un genere – ammesso e non concesso che questo sia sempre possibile. Tuttavia, negli ultimi venti anni i prodotti audiovisivi si sono evoluti, cambiando sia forma che sostanza, e un aspetto che hanno superato è quello della categorizzazione del genere.

Everything Everywhere All at Once è certamente un film di fantascienza, e ci sono tutta una serie di parametri a renderlo tale. È altresì vero che, seppur siano facilmente e immediatamente riconoscibili dello spettatore, gli elementi fantascientifici fanno da sfondo a un tema fondamentale da sempre per la civiltà umana: il senso dell’esistenza. Sostanzialmente siamo lontani – filosoficamente parlando – dalla fantascienza di Star Wars, dove la storia si articolava nella lotta fra bene e male e l’obiettivo si definiva nel controllo dell’universo o nell’impedirlo.

Chiaramente, la fantascienza intrisa di umanesimo ed esistenzialismo non è certo nata in questo secolo: basti anche solo pensare ai capolavori di Tarkovskij, come Solaris (1972) e Stalker (1979), o al grandissimo cult Blade Runner (1982) di Ridley Scott.

Ciò che si è registrato in questo primo scorcio di secolo è la continuità con cui il cinema sta decostruendo i generi, liberandoli da ogni etichetta. L’opera dei The Daniels ci è sicuramente riuscita, stimolando lo spettatore a riflettere su se stesso e su ciò che lo circonda.

Everything Everywhere All at Once - Screen tratto dal film

Una domanda multiversale

Da quando l’uomo ha preso coscienza di se stesso e del posto che occupa nel mondo si è ininterrottamente confrontato con il rapporto fra esistenza e morte. Se il fatto che la vita ha una fine è il primo atto umano di consapevolezza, allora la prima domanda da porsi è sul senso dell’esistenza.

La complessità, più filosofica che fisica, si annoda intorno a un senso di smarrimento, dettato dall’impossibilità di abbracciare il proprio scopo in modo indipendente dalle altre versioni di se stessi. A ogni scelta, micro o macroscopica, si crea un universo parallelo, che in un certo senso frammenta sempre più il senso dell’esistenza.

Il nemico da sconfiggere in questo film è Jobu Tupaki, l’essere vivente che più si avvicina alla perfezione, avendo accesso, contemporaneamente, a tutte le versioni di se stesso. Una specie di onniscienza divina che fa sperimentare le infinite possibilità della propria vita, passata, presente e futura.

Non c’è altra conclusione che l’inutilità dell’esistenza, insensatamente dolorosa e infelice. La distruzione del multiverso è l’unica scelta possibile, affinché tutta la sofferenza venga cancellata.

Un finale armonioso non limita gli spunti di riflessione che Everything Everywhere All at Once offre allo spettatore. Trovare il senso della propria vita non è concesso quasi a nessuno, ma porsi continue domande e tentare di rispondervi è il modo più illuminato di vivere.

Everything Everywhere All at Once - Screen tratto dal film

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