Dubbio
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#Dubbio

#DUBBIO

Capita qualche volte che leggendo carpisca qualche parola. Talvolta sono parole abbandonate, desuete, che riscopro con sorpresa e di cui mi appassiono subito. Altre volte mi innamoro semplicemente del suono, o delle immagini che suscitano. Molto spesso, invece, sono parole che sento ogni giorno, parole anche abusate e ampiamente dibattute, ma che nel libro che sto leggendo, diventano la chiave.

È quello che mi è successo con Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas1, ed è proprio Edmond Dantès a insinuare nella mia testa la parola di cui voglio parlare. No, non si tratta della “vendetta” (lo so che ci avete pensato!); non credo sia quella la parola che sostiene il romanzo, almeno non per me.

Non è stata una lettura facile, c’era qualcosa che mi infastidiva nella sicurezza dell’incedere di questo personaggio, così spietato, freddo, calcolatore. Non riusciva a convincermi, non riuscivo a entrare in empatia con lui.

Ho capito il perché di questa mia avversione solo arrivata al capitolo CXIII, quando finalmente i disegni del Conte si concretizzano prendendo, tuttavia, una piega non calcolata e la voce narrante ci mostra un personaggio nuovo, cambiato.

Arrivé au sommet de sa vengeance par la pente lente et tortueuse qu’il avait suivie, il avait vu de l’autre côté de la montagne l’abîme du doute.

Giunto al culmine della sua vendetta, dopo una scalata lenta e tortuosa, aveva visto sul versante opposto della montagna il baratro del dubbio.

Il baratro del dubbio. Niente di più icastico, e niente di più umano. È stato in quel baratro che Edmond mi è finalmente diventato simpatico, è dentro a quel baratro che mi è sembrato finalmente credibile. Non riuscivo a entrare in empatia con lui perché mi aveva palesato, fino a quel momento, un solo lato della montagna: il lato della certezza, del piano definitivo. Si era mostrato a me come un personaggio indefesso, incrollabile, glaciale. E io invece non li sopporto gli eroi indefessi.

Dubbio è la parola che ho inscatolato dopo questa lunga lettura. Il dubbio che si cela dietro ogni montagna. Il lato b di ogni proposito, perfino il più ferreo.

È in questa doppiezza strutturale di tutto ciò che ci circonda e che ci abita che si rintraccia anche l’etimologia della parola “dubbio”. Le sue radici affondano nel sanscrito dva o dvi che significa, appunto, due e da cui anche il greco δοιάζειν (doiazein), dubitare, e poi il latino dubium.

È evidente il legame tra la parola dubbio e il numero due. Il dubbio, infatti, si infiltra quando smettiamo di contare fino a uno, quando il pensiero e il giudizio iniziano a vagliare almeno un’altra ipotesi.

E cosa ci dovremmo guadagnare dalla pluralità, se non confusione? È ancora una volta una questione di colori, con il dubbio si guadagno le sfumature, si vede a raggio più ampio. Per qualcuno addirittura, dubitare è l’unica vista certa. Tranquilli, non mi addentrerò nel senso filosofico del termine, nessuna allusione al dubbio iperbolico, non sono qui per fare il genio maligno come vorrebbe Cartesio e speculare su questioni annose.

Mi piace solo pensare a tutte quelle opzioni che si aprono ogni volta che ci mettiamo in discussione, a tutti quegli spiragli che nemmeno possiamo intravedere quando pensiamo in modo monolitico. Mi piace pensare a quanto riusciamo a essere più tolleranti nel momento in cui iniziamo a dubitare, con gli altri e soprattutto con noi stessi.

 1 A. DUMAS, Il conte di Montecristo, I classici Bombiani, traduzione Vincenzo Latronico,

È così anche per Edmond Dantès, il baratro del dubbio non lo fa precipitare, al contrario, gli pone di fronte un’opzione che, accecato dalla voglia di vendetta non aveva mai vagliato: quella della felicità, una concessione che non sempre siamo in grado di farci.

Dubitare, forse, non serve a renderci persone migliori. “Sono coloro che non riflettono a non / dubitare mai. Splendida è la loro digestione, / infallibile il loro giudizio. / Non credono ai fatti, credono solo a se stessi”, scriveva B. Brecht nella Lode al dubbio. Già, dubitando,può capitare, anzi, che ci si rimetta nella qualità della digestione, in quella del sonno, anche. La vita di chi si muove sul binario unico del pensiero fisso è certamente più lineare, meno scomoda.

Capita anche a me di voler essere una di quelle “persone facili che non hanno dubbi mai” di cui accenna De Gregori. Ma, tutto sommato, preferisco i miei dubbi: voglio bene a tutta quella sana confusione che mi permette di capire che potrebbe esserci un’altra via, che non per forza il mio uno è quello esatto, quella confusione che mi apre all’altro, al suo uno e a tutte le addizioni.

Come scriveva la poetessa Wisława Szymborska a volte un po’ lo invidio-per fortuna mi passa.

C’è chi
C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
E’ tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.
E’ lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.
Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.
Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più,
perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.
E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.
A volte un po’ lo invidio
-per fortuna mi passa.


Wisława Szymborska

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