Il film-testamento di Kenneth Branagh
Belfast, pellicola di genere autobiografico in bianco e nero, è il film che ha fatto aggiudicare a Kenneth Branagh il suo primo Oscar. Giunto nelle sale cinematografiche italiane lo scorso anno, catturò da subito l’attenzione della critica, tanto che il regista statunitense Paul Schrader lo ha proclamato uno dei migliori film prodotti nel 2021.
L’opera ripercorre l’infanzia del regista stesso sullo sfondo della guerra tra protestanti e cattolici che scoppiò in Irlanda nel 1968. Il conflitto nordirlandese ha segnato profondamente l’ultima parte del Novecento europeo, non solo perché fu estremamente cruento, ma anche per la sua durata: solo sul finire degli anni Novanta infatti si giunse a un accordo, seppur del tutto provvisorio.
Il film ripercorre i sanguinosi avvenimenti storici a cui si è fatto cenno attraverso una prospettiva del tutto particolare, quella di Buddy, un bambino di nove anni che rappresenta l’alterego di Branagh.
Belfast, la città nord-irlandese nella quale si svolgono gli avvenimenti, è la stessa in cui Buddy è nato e vissuto circondato dall’affetto di genitori, nonni e fratelli. Tra scuola e attività nel suo quartiere, la vita di Buddy procede alquanto serenamente, almeno fino all’agosto del 1969, quando un gruppo di lealisti protestanti attaccò le case e le proprietà dei cattolici che vivevano nella sua stessa strada. Questo avvenimento è lo spartiacque che ha segnato un prima e un dopo nell’esistenza del protagonista: iniziano infatti una serie di peripezie che condurranno la famiglia anche a intraprendere scelte dolorose, come quella di abbandonare la città in cui risiedono i loro affetti più cari.
Attraverso lo sguardo disincantato e ingenuo di un bambino lo spettatore prende dunque parte al conflitto bellico. Molti sono gli interrogativi cruciali che attanagliano il protagonista relativi alla nuova condizione in cui si trova costretto a vivere, nella costante paura di una ronda nemica, in un clima di forti e costanti tensioni.
All’epoca la maggioranza protestante degli Unionisti, schierati al fianco della corona britannica, aveva come obiettivo quello di schiacciare i cattolici, i quali percepivano l’appartenenza dell’Ulster al Regno Unito come una dominazione e sognavano il ricongiungimento con la Repubblica d’Irlanda. Buddy, dal canto suo, pur essendo un cristiano protestante, non capisce per quale ragione un individuo del suo credo dovrebbe cacciare, ghettizzare o odiare i cattolici, con i quali condivide giochi, aule in classe, luoghi del proprio quartiere. Insomma nonostante la prospettiva sia quella di un bambino, si ottiene un forte effetto di problematizzazione di questioni alquanto complesse, che vengono osservate con acutezza.
Belfast, dunque, rientra appieno in quello che potremmo definire, prima di tutto, un racconto di formazione, in quanto Buddy intanto cresce e si confronta per la prima volta con emozioni del tutto nuove e con avvenimenti che non riesce a comprendere appieno. Osserva i suoi genitori litigare per il loro futuro incerto, prova la sofferenza lacerante all’idea di lasciare i suoi nonni lì a Belfast da soli, vede i suoi vicini farsi furiosamente la lotta e il suo quartiere trasformarsi in una trincea a cuore aperto, infine si confronta con il primo batticuore quando si invaghisce di una sua compagna di scuola. Insomma, avventure giovanili si mescolano al sapore del dolore e della già preannunciata nostalgia.
Tornando dunque al regista e alla sua forte radice autobiografica, Belfast appare come il racconto di quel momento cruciale in cui Branagh ha scoperto cosa vuol dire essere irlandese.
Un film, dunque, profuso di Irlanda, il paese tanto amato che lui stesso ha dovuto lasciare ma a cui, in fondo, è sempre rimasto visceralmente legato.
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