Il legame con la paura è profondo, stratificato, intimo, finanche biologico, e da tempo ha scardinato la dicotomia fra natura e cultura. Ari Aster tenta di mostrarlo nel suo ultimo film, Beau ha paura, imbastendo un viaggio allegorico da far compiere al suo protagonista, afflitto da vari disturbi mentali e da traumi mai interiorizzati.
Si sta sviluppando una nuova visione del genere horror, condivisa e ricercata soprattutto da tre autori della nuova generazione: Robert Eggers, Jordan Peele e per l’appunto Ari Aster. Chiaramente ciascuno dei tre registi possiede e mantiene uno stile autoriale personale e riconoscibile, ma c’è la comune tendenza a scrutare nelle paure abissate tra le profondità recondite della mente.
Beau ha paura è certamente un film ambizioso, che indaga la connessione fra percezione, paura e inconscio. Non è facile da digerire, anzi rimane pesante sullo stomaco dello spettatore, durante e dopo la visione.
Una mente fradicia di paure
Beau, interpretato da Joaquin Phoenix, è un uomo di mezza età che vive nel sottobosco marcio di una città qualunque, invaso da tossici e criminali. In continuo affanno con la propria esistenza, fra paure, conflitti irrisolti, senso di colpa e inettitudine, viene sconvolto dalla notizia della morte della madre, decapitata dal lampadario di casa.
Inizia un tormentato viaggio, lungo cui il confine fra reale e immaginario viene tirato a tal punto da strapparsi, rendendo per lo spettatore impossibile, così come per Beau stesso, districarsi nel groviglio psichico del protagonista. Ed è esattamente quella rottura che rivela il regno del possibile, il quale viene sublimato nell’allegoria prodotta dalla mente di Beau, fradicia di paure.
Paura di un mondo che piuttosto che circondarlo sembra opprimerlo, paura di non essere abbastanza, paura di essere giudicato, paura di non essere amato e, specularmente, paura di essere amato troppo, paura di veder scorrere la propria vita da spettatore inerme, paura di abbandonare il senso di colpa.
Eros e Thanatos
Il rapporto con la madre è la traccia principale del film, attorno al quale gravitano sentimenti contrastanti, carichi di ambiguità e mai elaborati. Tra le fessure di questa odissea psichedelica striscia sibillinamente il complesso di Edipo, che non è certo l’unico richiamo a Freud.
Uno dei cardini della teoria freudiana è il legame fra Eros e Thanatos, delucidato dettagliatamente in Al di là del principio di piacere (1920). Prendendo in prestito le due figure della mitologia greca, Freud spiega come l’uomo sia dominato dalle contraddizioni. Tutto si riduce alla tensione ineliminabile fra pulsione di vita e pulsione di morte.
Beau subisce questa tensione, manifestandola sia come istinto di conservazione che come tendenza autodistruttiva. Creazione e distruzione, amore e morte, pacatezza e aggressività: la psiche scorre lungo le inesorabili contraddizioni dell’animo umano.
Eros e Thanatos si presentano invero come pulsioni ancestrali che dominano l’uomo e che si intersecano nel punto che ne rompe l’equilibrio: il senso di colpa.
Emblematica è la scena finale – ancora una volta allegorica – in cui Beau, traghettato dinnanzi a una platea pronta a giudicarlo, si dispera ascoltando le arringhe dell’avvocato di sua madre. Il pubblico incita famelicamente il giudizio, per poi cibarsene avidamente una volta emessa la sentenza.
L’oggetto del giudizio è invece il senso di colpa, che fa di lui il giudice stesso. Seppur sembri uno scadente gioco di parole, si (auto-)giudica colpevole di sentirsi in colpa. È probabilmente l’unico modo di liberarsene e di lasciarlo sprofondare nelle torbide acque del proprio inconscio.
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