Barbie o il totalitarismo pubblicitario

Barbie o il totalitarismo pubblicitario

Siamo in pieno totalitarismo pubblicitario e non ce ne accorgiamo. Gli spot sono passati dai poster a filmati di pochi secondi per essere ora veri e propri film. E non ce ne accorgiamo. E andiamo a vederlo pagando il biglietto. Ammantiamo Barbie di femminismo o di argomenti simili, diciamo pure che è un inno al riconoscimento dei diritti delle donne contro la società patriarcale, ammiriamo pure il talento e la bellezza di Margot Robbie e di Ryan Gosling, evidenziamo il forte messaggio di Greta Gerwig, elogiamo il pink ossessivo e disquisiamo di altre questioni. 

Resta comunque un lungo, elaborato spot pubblicitario. 

Barbie o il totalitarismo pubblicitario -Home

Scopo della pubblicità e chi mette i soldi

La faccio semplice: ho un oggetto da vendere, e per farlo devo convincere la gente a comprarlo. Per questo, da quando esiste il commercio, esiste la pubblicità. Con la televisione, esiste lo spot, qualche secondo per dire quanto è unico e conveniente il mio prodotto. Ci siamo, no? 

Bene, come si dice in una battuta del film Barbie, esiste un solo concetto, nel mondo degli affari: l’importante è vendere. Non importa come o cosa, il fatturato è il mio unico pensiero. 

Bene, fare un film su una bambola risponde in maniera evidente a questo scopo: vendere la bambola. Non solo quella, ma tutto un merchandising legato al prodotto: scarpe, borse, gadget, magliette, adesivi, coperte, milioni di oggetti con la scritta o l’icona della Barbie in tutti gli scaffali dei negozi. I rollerblade gialli andranno di moda, ne sono certo. 

Siamo d’accordo, finora? Andiamo avanti.  

Barbie o il totalitarismo pubblicitario - Rollerblade

Farlo in maniera evidente o nascosta?

La Mattel è dal 2009 che cerca di fare questo film. Finalmente c’è riuscita, mettendoci i soldi, non pochi ma già ampiamente recuperati. Ora, se io sono produttore sia del film che del prodotto principale del film, quanta probabilità c’è che del prodotto in questione se ne parli male? Zero. Il film mi deve vendere il prodotto, deve essere finalizzato a quello. Se poi a te che affido la sceneggiatura ti viene in mente di scriverci del femminismo, ti dico solo di non esagerare, fallo pure, dì pure che il mio CDA è composto di soli uomini e tutti rimbecilliti, fallo pure. L’importante è sempre e comunque che il mio prodotto venda. 

Prendo questa frase dall’ultimo libro di Beigbeder, noto pubblicitario e scrittore sopraffino francese: «I governi non dispongono degli stessi mezzi di persuasione delle aziende internazionali.» 

Ci siete? Manca poco alla fine. 

Barbie – Il femminismo che maschera la pubblicità evidente

La Barbie ha aiutato le bambine a immaginarsi altro che madri? Forse sì. Ha permesso e permette alle bambine di tutto il mondo di immaginarsi diverse, ha permesso e permette loro di pensare che possono giustamente essere quello che vogliono. Il modello proposto è però lo stereotipo della donna bianca, bionda, formosa, senza vagina: I’m a Barbie girl / in a Barbie world / Life in plastic / It’s fantastic (Aqua, 1997). Negli anni la Mattel ha creato centinaia di bambole, evitando dunque di fossilizzarsi in questo stereotipo. 

Il femminismo delle sceneggiatrici dà speranza alle donne? Per me no. Denigra e ridicolizza il patriarcato in maniera talmente sciocca da risultare controproducente. Davvero il potere nelle società occidentali è affidato a proprietari di multinazionali completamente stupidi? Io non credo, anzi, penso sia vero il contrario. E sarebbe ancora peggio se fossero davvero idioti così come vengono descritti nel film, perché la donna sarebbe colpevole di non fare una rivoluzione, di restare inerte.

Davvero la soluzione nella guerra tra il patriarcato del mondo reale e lo women power del mondo delle bambole si risolve con avere finalmente la vulva? Se si voleva dare questo messaggio, il film ha fallito. Se si voleva dare un qualsiasi messaggio femminista, non si dovevano usare le bambole, e soprattutto queste bambole. 

Il fatto che ci sia un film del genere, significa solo che abbiamo perso. Tutti quanti. Tutte quante. Siamo entrate ed entrati nell’era del totalitarismo pubblicitario, e dunque

«non mi resta che ringraziarvi per la vostra attenzione augurandovi, a tutte e a tutti, una piacevole apocalisse.»

(F. Beigbeder)

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