Il titolo dell’ultimo libro di Annalena Benini potrebbe trarre in inganno. Il fatto che il nome dell’autrice e il nome che dà il titolo al libro coincidano potrebbe dare l’idea di un’autobiografia. Annalena Benini che parla di sé stessa: che cosa bizzarra, verrebbe da pensare.
In realtà, l’Annalena di cui si parla nel libro è Annalena Tonelli, una sua lontana cugina uccisa brutalmente con un colpo di fucile in Somalia, nel 2003, dove aveva deciso di vivere per assecondare un moto di libertà: quello di scegliere cosa fare e come spendere ogni giorno della sua vita. Una vita segnata dall’amore, un’esistenza spesa a prendersi cura degli altri, prima in Kenya e poi in Somalia, dove si era prodigata per costruire ospedali, sostenere le persone, accudire bambini rimasti da soli, salvare esistenze dall’incuria della vita, provando a ridare loro la dignità negata.
Era tutto questo, Annalena Tonelli, fino a quella sera dell’ottobre del 2003, quando qualcuno decide di mettere fine non solo alla sua esistenza, ma anche a tutto ciò che era stata in grado di creare, di mettere insieme grazie alla sua dedizione e alla sua predilezione ad adoperarsi per gli altri: i più sfortunati, i più sofferenti, i più disgraziati.
Non voleva che si parlasse troppo di lei e non amava essere definita una santa, come spesso accadeva. Di certo non amava le celebrazioni, tanto da lasciare una sorta di testamento spirituale in cui chiedeva esplicitamente che non si raccontasse la sua storia neppure dopo la sua morte.
«Non sono né posso né voglio essere un maestro. Prendete di me ciò che vi aggrada e costruite il vostro personale edificio. Non ambisco che d’essere gettata nelle fondamenta di qualcosa che cresce perché il seme deve morire. Un giorno fiorirà. Io non ho il desiderio di vedere il fiore. Altri lo vedranno»
Un testamento che Annalena Benini ha disatteso, assecondando anche lei un moto di libertà, ma soprattutto di coraggio: il coraggio di andare contro, di andare a raccogliere quel fiore e raccontarlo, per far sì che più persone possibili potessero conoscerlo, guardarlo, ammirarlo.
Un atto letterario, certo, ma anche un atto d’amore, nonostante la disobbedienza, nei confronti di chi le stava mostrando che si può vivere in modo diverso: una persona di famiglia di cui per molto tempo aveva saputo solo di avere lo stesso nome, ma che non avrebbe mai immaginato quanto un giorno, trovandosi in un letto di ospedale, avrebbe sentito vicina, nonostante le differenze.
Vicina nella disobbedienza e nell’urgenza di mostrare, per renderle giustizia, la grandezza di una donna tanto distante da lei, e per la quale prova persino il disagio dell’inadeguatezza della propria vita, così pienamente presente nel mondo frivolo e semplice, normale, che le insegna che anche in una vita che non aspira all’assoluto si può costruire qualcosa di buono.
Una distanza che diventa vicinanza e che, a partire dal nome, si incarna nei pensieri dell’autrice che una notte, mentre fa fatica a dormire a causa di una polmonite che l’ha portata in ospedale, pensa:
«Ma se morissi adesso che ho fatto così poco?»
Un pensiero che arriva in un momento di sofferenza e di debolezza fisica che, inevitabilmente, si fa anche stanchezza mentale e spalanca le porte a quelle domande scomode, da una parte, ma anche importanti, quelle che ti fanno sprofondare nella parte più buia di te stessa, quella più estrema, e poi ti danno lo slancio per risalire ed incontrare, in quella risalita, cose che non avevi mai visto o non avevi mai saputo vedere.
Ed è in quella risalita che Annalena (Benini) incontra Annalena (Tonelli), in quel sentire profondo della fine che forse sua cugina avvertiva ogni istante della sua vita e che l’aveva spinta a scrivere quella frase così simile al suo pensiero:
«E se morissi oggi? Se morissi senza avere amato di più?»
Una frase scritta e un pensiero che si incontrano e accendono una miccia che aspetta di diventare fuoco e di ardere. Quel fuoco capace di dare la scossa, quel “senso di essere”, come lo definisce Virginia Woolf, capace di contrastare quel “non essere” che «in una giornata è sempre molto di più che l’essere». Una scossa che dà il senso alle cose, alla vita, alle parole. E anche alla disobbedienza della Benini che decide di raccontare sua cugina e come le sia entrata dentro instillando quel desiderio di non vivere più – come dice ancora la Woolf – con quel «senso di fodere estive alle poltrone».
Incarnazione e metamorfosi
Le due Annalena non si sono mai incontrate eppure, a un certo punto, la storia di una entra nella vita dell’altra, cambiandone la prospettiva.
Una storia che diventa una riflessione trasversale, che si articola in un percorso che la Benini compie partendo da uno sbilanciamento che le impone di ritrovare il suo centro e che la indirizza verso quell’altro da sé che le dona un senso nuovo a quel suo quotidiano apparentemente inconcludente.
Una sorta di viaggio che parte da altre donne, da altre scosse: Virginia Woolf, Simone Weil, Emily Dickinson, Etty Hillesum, donne che a loro modo hanno disobbedito per raccontare l’assoluto, diventando un tramite per rendere giustizia ed «essere grati alla vita per i momenti di ispirazione che essa talvolta ci permette di vivere attraverso altri» (Etty Hillesum).
Una storia che ha sedimentato per molto tempo nella testa, nel cuore e nelle parole di Annalena Benini, che ha lottato con quel fuoco che ardeva dentro di lei fino a riuscire a trovare il coraggio di non stare «sempre un passo indietro» e ad avvicinarsi totalmente, a farlo suo e poi a regalarlo a noi.
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