Anish Kapoor, indiano di Mumbai dove è nato nel 1954 da una famiglia metà indiana e metà iracheno-ebraica, è ormai londinese di adozione e considerato tra i migliori artisti contemporanei.
Si muove con disinvoltura tra l’arte pittorica, la scultura e l’architettura impiegando innovativi materiali nanotecnologici per le sue opere come l’incredibile pigmento nero Vantablack che riesce ad assorbire il 99,9% della luce regalando un nero intenso, pulito, cangiante.
Cresciuto tra dettami culturali orientali e occidentali, sviluppa una propria filosofia dei contrari che indaga il sacro, la dicotomia tra il femminile e il maschile, il pieno e il vuoto, il bianco e il nero, il “non-oggetto” servendosi di materiali svariati, dalla pietra al gesso, dal legno al pvc, con cui plasma i suoi oggetti, come nella serie 1000 Names del 1979, per poi ricoprirli di pigmenti colorati e luminosi che si sbriciolano in polvere alla base delle sculture lasciando allo spettatore la scelta di interpretazione se quegli oggetti nascano dalla polvere o quella polvere sia residuo dell’oggetto.
Tra i materiali prediletti ci sono poi gli specchi e il metallo da cui ricava superfici dalle forme perfette, sia concave che convesse, che con la loro eccellenza simmetrica riflettono una realtà deformata e falsata.
Kapoor, infatti, punta proprio alle emozioni, quel sentire innato con cui ogni essere umano percepisce l’oggetto che ha davanti, per confondere lo spettatore e fargli prendere coscienza della precarietà dei punti di vista. Lo spettatore è parte della creazione artistica perché agisce con essa.
Quello che sembra immediato guardando l’opera da lontano diventa diverso, opposto, quando ci si avvicina, quando ci giriamo attorno, quando ci riflettiamo in essa, eppure si percepisce qualcosa di magnetico che tocca le corde ancestrali dell’intuizione.
Negli anni Novanta la sua scultura e le sue istallazioni diventano architettura con opere monumentali che, anche questa volta, disorientano lo spettatore tra forze opposte: «Sono molto interessato al non-oggetto o il non-materiale.
Ho fatto oggetti in cui le cose non sono quello che in un primo momento sembrano essere. Una pietra può perdere il suo peso o un oggetto in modo speculare può mimetizzarsi nei suoi dintorni da apparire come un buco nello spazio».
Ed è questo che indaga con le sue sculture più importanti: il Double Mirror, Turning the World Upside Down e il grande Cloud Gate di acciaio (lungo 18 metri e alto 9, chiamato “fagiolo”) posta al Millennium Park di Chicago di cui ormai è simbolo, o lo Sky Mirror, un cerchio di metallo esposto a Nottingham, Londra, e poi New York.
Tra le ultime opere c’è l’incredibile Shooting into the Corner, in questi giorni esposta alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, che ancora una volta destabilizza lo spettatore: un grande cannone spara contro le pareti dei giganteschi proiettili composti di una particolare cera rossa – anche questa è una sua creazione – che ricoprono l’intero pavimento di cumuli informi di materiale rosso: è la guerra che viene in mente, il massacro e la lunga scia di corpi martoriati dalla violenza.
Altra opera magnetica è Descention, una scultura detta cinetica perché è una piscina circolare del diametro di 5 metri, in cui si muove in perpetuo un vortice di acqua scura. Una sensazione di paura, sgomento, un buco nero dei pensieri in cui si è costretti a prendere coscienza delle proprie paure.
Anish Kapoor è presente nelle collezioni del Museum of Modern Art di New York, alla Tate di Londra, alla fondazione Prada di Milano e ai Guggenheim di Venezia, Bilbao e Abu Dhabi.
Ha esposto con mostre temporanee a Pechino, Buenos Aires, Porto, Messico, Mosca, Istanbul, Sidney. Ha rappresentato la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia nel 1990. Le sue architetture sono presenti a Parigi, al Queen Elisabeth di Londra, in Giappone e nel 1991 ha ricevuto il Premio Turner.
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