Gennaio 2006
«La città è un luogo in cui lo scambio è fisico, intenso, non virtuale; si fa un gran parlare di cultura del virtuale, dei giornali che cederanno il posto al video, però la città resta lo spazio in cui vivere assieme. Quando immagino una città, la immagino compatta e densa, capace di generare rapporti intensi.»
Renza Piano, 2006
Sono figlio di un costruttore genovese. Subito dopo la laurea ho avuto la possibilità di conoscere la vita di cantiere e di esercitare la professione proprio grazie a mio padre, e devo a lui anche le prime relazioni con i clienti.
Ho iniziato ad appassionarmi di tecnica delle costruzioni fin da quando ero piccolo e mi recavo in cantiere con lui. Ero affascinato nel vedere il progetto creativo che man mano prendeva forma sotto i miei occhi, per divenire un’abitazione, un impianto sportivo, un complesso residenziale.
E ora, da piccolo genovese praticante, sono il primo italiano a essere inserito nella “Time 100” del Time.
Iniziare la professione di architetto è stato naturale: «È venuto da solo. Mio padre era un piccolo costruttore, un po’ più di un capomastro, andava sempre in cantiere con la cravatta e il cappello. I miei zii erano così, mio fratello era così. Ma essendo bastian contrario, la normalità di diventare costruttore anch’io si è combinata con l’andare via di casa. Diventare architetto è stato un modo pacifico di ribellarmi. Dunque non è stata una rivelazione del destino.»
Il momento che preferivo, quando ero in cantiere, era quando potevo prendere in mano i disegni, che ai tempi erano tracciati a mano con una perfezione incredibile: amavo leggere le prospettive, scoprire i calcoli statici e conoscere la complessità delle strutture.
Volli trasformare la mia passione in lavoro e così iniziai a frequentare le scuole di Architettura dell’Università di Firenze e del Politecnico di Milano, e mi laureai nel 1964.
Fui fortunato, in quanto già durante gli anni della formazione avviai le prime collaborazioni con persone di uno spessore incredibile, come Franco Albini, maestro del Razionalismo italiano, che mi introdusse allo studio minuzioso del dettaglio architettonico, e Marco Zanuso.
Con Albini fu una sorta di ineluttabile appuntamento con il destino: «Ho conosciuto Franco Albini nel settembre del 1960, nel suo studio di via XX settembre, a Milano. […] Gli spiegai che avevo lasciato Firenze perché era una città troppo perfetta e che volevo lavorare nel suo studio, e a Milano, città manifestamente meno perfetta. E così fu.»
Di Zanuso invece ne fui assistente e «quando ho cominciato a lavorate con lui, ero già laureato e per due o tre anni gli ho fatto da assistente nel corso “Trattazione morfologica dei materiali”; un corso inventato da lui per parlare di design senza usare la parola design, marginale negli ordinamenti della facoltà, ma divertentissimo, perché ti spingeva a lavorare sulla realtà fisica delle cose. Zanuso mi ha insegnato a mettere le mani dentro il processo di progettazione.»
Febbraio 2006
«La flessibilità è una questione morale e non un fatto tecnico.»
Milano mi andò stretta velocemente, sentivo la necessità di allargare i miei orizzonti, di espandere le mie conoscenze e vistare posti nuovi che mi potessero trasmettere emozioni per poter esprimere al meglio il mio processo creativo.
In primis mi trasferii negli Stati Uniti, terra di novità e nuove promesse e tra il 1965 e il 1970 lavorai con Louis Kahn a Filadelfia.
Nel contempo conobbi l’ingegnere polacco, emigrato a Londra, Zygmunt Stanislaw Makowski, il grande pioniere nell’applicazione delle space structures.
A lui mi ispirai profondamente per le mie sperimentazioni di strutture spaziali leggere, a guscio.
Per me era una sfida, soprattutto il realizzarle con modernissimi sistemi costruttivi che mi portava spesso a cimentarmi in cantieri altamente industrializzati.
Il mio grande amico e maestro Jean Prouvé mi veniva spesso in aiuto e la sua e mia ricerca combaciavano spesso.
Nacquero progetti che segnarono il vero inizio del mio lavoro e cominciai a essere noto nel mondo dell’architettura.
I primi progetti furono contraddistinti da una carica innovativa e originale, che pur traendo spunto e affondando le radici nella tradizione precedente, cercavano di proiettarsi nel futuro. Riuscii a esprimere tutto questo già con la fabbrica mobile per l’estrazione di zolfo, costruita a Pomezia nel 1966, e in seguito con il padiglione per la XIV Triennale di Milano del 1967, che purtroppo non venne aperto per via della contestazione studentesca, e quello italiano alla Fiera di Osaka nel 1969.
Marzo 2006
Gli anni 1968 e 1969 furono intensi e orgogliosi. Riuscii infatti a costruire il mio primo studio e decisi di farlo proprio nella mia città natale, sia per sottolineare la mia identità d’origine sia perché era una sorta di trampolino di lancio da cui ebbe inizio tutto fin da bambino.
In quegli anni realizzai anche le abitazioni a pianta libera di Garonne e Cusago e riuscii anche a esprimere al meglio il mio modus operandi con la sede della B&B Italia a Novedrate di Como.
Ritengo che lo spazio progettuale e architetturale sia legato alla costruzione di singoli pezzi che con gli interventi precedenti condivide l’interesse alla costruzione per blocchi altamente tecnologici e affrontati come fossero oggetti di design, che vengono assemblati per dar vita all’intero progetto. Una sorta di moduli a incastri perfetti.
Volevo spingermi lontano dalle idee standard, preconfezionate e già viste, che il mercato edilizio proponeva. Creai così la mia metodologia lavorativa, principalmente basata sulla creatività e ispirata al design, elaborata pezzo per pezzo e mi sono accorto che è diventata la mia firma. Un modello che ancora oggi mi identifica e caratterizza.
«Sono cresciuto tra il mito di Otto Frei e quello di Buckminster Fuller e l’idea che l’architettura si costruisce pezzo per pezzo permea il mio immaginario, alimentando la mania quasi ossessiva di fare prototipi; anche Albini, essendo artigiano nato, aveva questa attitudine progettuale.»
Aprile 2006
«Il mio rito è oziare dove sorgerà il cantiere, ascolto la terra, misuro i desideri.»
In quegli stessi anni, a Londra, conobbi Richard Rogers, e fondammo lo studio della Piano&Rogers nel 1971. Con lui e con Gianfranco Franchini, inaspettatamente, vincemmo il concorso internazionale per il celeberrimo Centre Georges Pompidou di Parigi al quale parteciparono 681 concorrenti provenienti da 49 paesi diversi.
Mi trasferii in Francia e insieme a Richard Rogers avviai il cantiere che divenne uno dei più discussi del XX secolo e realizzai il prototipo del museo di fine millennio: una macchina urbana priva di carrozzeria.
Provocatorio, irriverente, simbolo dell’incondizionata fiducia nel futuro, trasformista ma cucito su misura: il Beaubourg.
Ogni singolo e gigantesco componente della struttura venne realizzato su disegno dalla Krupp, l’edificio è volutamente in contrasto stridente con lo storico quartiere del Marais, a me particolarmente caro, e s’incunea nel tessuto cittadino introducendo una piazza urbana.
Sarebbe Renzo Piano senza il Beaubourg?
«Sa che è una domanda che ogni tanto mi pongo? Non è che io e Richard fossimo così intelligenti. Ma quando lo guardo, non mi meraviglia che l’abbiamo fatto, ma che ce lo abbiano lasciato fare. In fondo era un atto dovuto. Il Beaubourg era figlio della rivolta studentesca. Quella che avevo vissuto a Milano prima del ‘68, quando di giorno lavoravo nello studio di Franco Albini, un genio, e di notte occupavo l’università, con Camilla Cederna che ci portava i cioccolatini. E quella vissuta dopo il ‘68, quando stavo a Londra, le gonne erano sempre più corte e i capelli più lunghi. A New York vedo abbastanza spesso Philip Roth e ho scoperto che eravamo amici a Londra in quegli anni».
Maggio 2006
«Misurare è un gesto di conoscenza: è un modo per impossessarsi delle cose, non nel senso ignobile della parola, significa capirle. I miei amici mi chiamano geometra, misuratore della terra.»
Inizialmente ci furono molte polemiche sull’aspetto dell’edificio. Durante gli anni ’70, quando era ancora in costruzione, le critiche più feroci parlavano di una raffineria di petrolio.
Mi rattristai ma ero più convinto che mai che il progetto fosse innovativo e unico nel suo genere, forse proprio la novità e l’essere così diverso da quanto si fosse abituati portava alle polemiche.
Attesi poco, perché le nostre fatiche furono ricompensate:
«Inaugurato ufficialmente il 31 gennaio 1977, il Centre Pompidou è stato aperto al pubblico il 2 febbraio dello stesso anno, un successo immediato ben superiore alle aspettative originali. In effetti, il Centro Pompidou divenne rapidamente uno dei luoghi di cultura più famosi al mondo e uno dei monumenti più visitati a Parigi e in Francia con la fine degli anni ’70 e ’80, con mostre che diventavano leggende a sé stanti. Oggi la sua facciata moderna e futuristica incontra un’approvazione quasi unanime. Conquistato il cuore dei parigini, è considerato un edificio emblematico e un monumento storico del 20° secolo.»
Contento di quanto stava accadendo, continuai a esprimere al meglio la mia creatività e nacquero nuovi incontri che scaturirono progetti, solidi e duraturi.
Nel 1977 strinsi un legame con l’ingegnere inglese Peter Rice e fondammo l’Atelier Piano&Rice a cui seguì l’apertura del Renzo Piano Building Workshop nel 1981, che tutt’oggi è il nome del mio studio personale.
Si susseguirono varie costruzioni fino ad arrivare al progetto per il recupero del Porto Antico di Genova nel 1985 che durò fino al 2001, un tributo alla mia città in vista della celebrazione del cinquecentesimo anniversario del viaggio di Cristoforo Colombo in America.
«C’è un filo rosso che unisce questo progetto a quello del Lingotto, a quello di Otranto, a quello di Burano. È la crescita di una metodologia di analisi e intervento sullo spazio urbano. Nel suo insieme il Porto Antico è una fabbrica dismessa, come il Lingotto: la differenza è che l’edificazione non è avvenuta nel corso di cinque o sei anni, ma in un tempo cento volte superiore.»
Lo scopo che mi sono prefisso e che ho raggiunto è la trasformazione di un evento effimero nel motore di conversione e rinascita della città.
Lo stesso metodo lo adottai poi negli interventi sulla berlinese Potsdamer Platz (1992-2000) e per il campus della Columbia University a New York (2000-2017).
Giugno 2006
Il primo ricordo felice è legato alla costruzione di castelli di sabbia, sulle spiagge della mia Liguria insieme a mio fratello e a mia sorella. Ho sempre avuto una bellissima intesa con loro.
«Se hai 7-8 anni ed è finita la guerra il tuo playground, come si dice oggi, è la spiaggia di Pegli. Ma devi scegliere molto bene il posto dove fare un castello, ci vuole la sabbia giusta, la pendenza giusta, devi capire quando l’onda arriva. Per costruirlo basta fare uno scavo circolare, la sabbia che togli la metti in mezzo e quello è il castello. Poi se sei furbino aspetti il momento in cui arriva l’onda e per un momento lo scavo diventa un fossato con l’acqua e devi essere svelto a chiudere gli occhi per catturare quell’istante nella memoria.»
Il mio rapporto con l’acqua nel corso degli anni ha assunto un ruolo progressivamente più incisivo, ed è diventata uno strumento attraverso cui costruire nuovi paesaggi, in cui natura e artificio s’intrecciano.
I retaggi infantili, ovviamente, hanno contribuito a tutto ciò.
Un momento di espressione fluida è stata la creazione de Il Nemo di Amsterdam, il Centro Nazionale per la Scienza e Tecnologia costruito in forma di nave che pare attraccare dentro il porto.
L’acqua ha una bellezza immediata, istintiva, ha un valore espressivo universale: è un materiale che trasmette vibrazioni, raddoppia le immagini, restituisce la complessità della visione. Ed è questo che voglio trasmettere: l’emozione della sua purezza e un po’ di sapore della mia terra e del mio mare.
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