Strappo
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#Strappo

Leggo da qualche giorno che le ultime vicende politiche hanno creato uno “strappo” all’interno dei partiti. Sento da mesi che questa pandemia ci ha strappati dalle nostre vite di prima, dalle nostre care e confortevoli vecchie abitudini. L’ho letta anche questa mattina, in prima pagina, la parola “strappo”.

Leggendola ho pensato che leggerla fosse riduttivo.

È una di quelle parole che vanno pronunciate ad alta voce, e magari ripetute un paio di volte, per coglierne tutta la loro portata onomatopeica e sentire davvero lo strappo, vederlo quasi, e percepirne la violenza.

La parola strappare pare derivi dal gotico strappōn, che significa “tendere con forza, da cui il tedesco straffen. Tuttavia, alcuni linguisti sostengono che si tratti di un allotropo, una variante di una parola che mantiene lo stesso significato, del latino extirpare, estirpare, appunto, sradicare.

Qualunque sia la sua radice, è evidente la portata brutale di questo termine. È una rottura irreversibile. Lo strappo sradica, ci allontana dal nostro luogo sicuro, ci toglie le radici e ci lancia nel mondo, diversi, nuovi, persi, forse mutilati.

Oggi, nei dizionari, alla voce strappare si legge “allontanare con forza”, “fare a pezzi”. Lo strappo è dunque un punto di non ritorno, come quello a cui pare siamo arrivati, una realizzazione violenta di un cambiamento forzato.

Mi viene in mente Anselmo Paleari, il bizzarro filoso uscito dalla penna di Pirandello, ne Il fu Mattia Pascal, quando immagina che, all’improvviso, nel cielo di carta sopra le teste delle marionette che inscenano l’Oreste di Sofocle, si verifichi uno strappo.

Una volta capita la finzione di quel cielo, le maschere della tragedia classica perderebbero la loro fermezza, non saprebbero più cosa fare, come è giusto agire.

Strappo - Next Audiolibri
Strappo – Next Audiolibri

La scoperta di essere finzione li distruggerebbe, e allora Oreste diventerebbe Amleto, l’uomo del dilemma.

L’inganno è, in un certo senso, confortante. Credere ciecamente che quello che ci circonda sia vero, resistente, che sia l’unica opzione possibile è garanzia di una vita serena. Impazziremmo nel capire che quello che ci circonda non è reale e non è stabile, che la nostra identità è bugiarda.

Accettiamo quindi la finzione, le nostre maschere.

Lo strappo, oltre che essere violento, è dunque destabilizzante. A meno che non avvenga lungo i bordi, come ci ha spiegato bene Zerocalcare. Strappare sì, purché non ci allontani dal tracciato.

È il solito vecchio timore, la paura di essere fatti a pezzi. La paura del dolore e del crollo delle illusioni: la cifra caratterizzante di quella che Byung-Chul Han ha chiamato la società senza dolore.

Per il filosofo sudcoreano, viviamo oggi in una società palliativa, perennemente anestetizza e affetta da algofobia, la paura del dolore. Essere strappati, provare dolore ci terrorizza.

Forse è per questo che le rivoluzioni non vanno più di moda, ma si preferiscono i trainer motivazionali che ci insegnano come affrontare la vita con positività.

Forse è ancora per questo che spopola la parola “resilienza”, perché non sono permessi strappi, affossamenti, non ci si deve spezzare più, ma modellarsi come una cera su quello che accade. Tutto, purché si resti interi, purché il dolore e lo strappo siano scongiurato.

Eppure, Eugenio Montale ci esortava a cercare una maglia rotta nella rete che ci stringe e da lì balzare fuori, fuggire. Ci invitava inseguire lo strappo, come una via d’uscita dalle maglie troppo strette di una vita falsamente rassicurante.

Eppure, Mimmo Rotella dello strappo ne ha fatto arte, strappando dai muri della Roma degli anni Cinquanta i manifesti appena incollati e reinventandoli poi in studio, inventando la tecnica del decollage che non costruisce, ma demolisce un’opera.

“Strappare dai muri i manifesti è l’unico mezzo di protesta che ci resta contro una società che ha perduto il gusto dei mutamenti e delle meravigliose trasformazioni”, spiegava.

E allora mi piace pensare lo strappo nel cielo di carta del teatrino delle marionette più come una rivelazione che come uno shock.

Un disvelamento alla The Truman Show, che ci porta davvero a uscire attraverso quello strappo, come voleva Montale, e a farci dire a cuor leggero “e casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!”. Salutare quello che era intero e prenderci i pezzi.

Mi piace pensare allo strappo come a una possibilità, la possibilità di avere il coraggio di resistere anche senza le radici attaccate ai piedi, il coraggio di non spalmarsi sopra al cambiamento ma lasciarsi spezzare e rimescolare i pezzi, il coraggio di vedere che dallo strappo può entrare luce e non solo dolore.

Godi se il vento ch’ entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario. 

Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo. 

Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’ imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro. 

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, – ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…

 In limine, Eugenio Montale, Ossi di Seppia (1925)

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