Non è una parola nuova, la parola paura. Qualche giorno fa, intervistando Giovanni Dozzini, con Arcipelago libri (
E poi è arrivato il covid e tutte le inenarrabili paure annesse: la paura della malattia, del dolore, della morte, delle abitudini che finiscono, della lontananza, della solitudine, la paura di impazzire, della noia, del contatto, la paura dell’altro.
E adesso, eccola qui, la più spettrale forse di tutte le paure, concreta e tangibile questa volta: la paura della guerra.
Insegno in una scuola secondaria di primo grado, una scuola media, per capirci, insegno storia, e parlo di guerre continuamente. Nella testa dei ragazzi (non solo nella loro, probabilmente) per qualche immediata, naturale e rapida associazione la guerra è sempre stata qualcosa di relegato al passato, una fetta importante di una materia tediosissima che ci parla di morti e che ormai è evidente che non sappia insegnarci nulla. Il rischio che si corre a cristallizzare qualcosa nel passato è proprio questo: pensare che non possa più in alcun modo riguardare il presente.
Invece le guerre non sono mai finite, ma erano lontane e nessuno gliele racconta mai, e adesso, quindi hanno paura. Ogni mattina è una tempesta di domande. Vogliono sapere cosa succederà, vogliono che gli spieghi come andrà a finire e, soprattutto, se ci coinvolgerà direttamente.
All’inizio pensavo fosse un modo come un altro per non fare lezione, ma i loro occhi ti scrutano fissi e attentissimi mentre provi a balbettare spiegazioni, mentre cerchi di dare risposte che finiscono inevitabilmente con un rassegnato “non lo so”.
Mi ricordano me, nel 2001. Chi se le scorda le edizioni straordinarie dei tg, e l’istantanea minaccia di una guerra di risposta a cui l’occidente compatto e democratico difficilmente avrebbe potuto sottrarsi. Anche io chiedevo spiegazioni ai miei professori, perché ci avevano promesso che la guerra fosse una cosa di una volta, che adesso c’era la NATO, c’era l’Unione Europea, che avevamo imparato e non sarebbe più successo.
Ci avevano insegnato tutto lo schifo delle guerre mondiali e la nostra logica di bambini non concepiva repliche. Io, poi, della storia mi ero sempre fidata, e quindi che stava succedendo? Perché parlavano di guerra?
Ritrovo lo stesso sconcerto in questi giorni, e mi sento in colpa. Sento anche io di averli traditi. Di averli illusi parlando di guerra sempre al passato o sempre in lontananza e di averli lasciati disarmati di fronte al panico.
Sarebbe bello poter smettere di avere paura. Come vorrei poter disinnescare questi bombardamenti di paure che ci lanciano addosso, quelle grandi e anche quelle piccole che non leggiamo o ascoltiamo da nessuna parte, ma ci rimbombano dentro. Perché la paura rimbomba, anzi, percuote.
È l’etimologia che, ancora una volta, fa luce su questo dolore fisico, su questa fisiologia della paura. Il termine, infatti, ha radice indoeuropea pat– che significa letteralmente percuotere ed in senso figurato incutere timore, atterrire. Da qui il greco pte-sso e pte-eo cioè getto o casco nello spavento, che indica anche la scossa, il tremito che infonde il terrore e il latino pavor, da paveo, io temo ma anche io sono percosso, abbattuto.
È un movimento dell’animo dirompente quello che genera la paura, una sorta di scossa, uno schiaffo. La paura è una delle emozioni primarie, è innata ed è condivisa con tante altre specie animali.
Nasce infatti automaticamente di fronte al sentimento del pericolo, e proprio in questo senso svolge anche un importante funzione di autotutela, di salvaguardia. Del resto, osservava Sallustio, era proprio il metus hostilis, la paura del nemico, a preservare la romanità, il mos maiorum, l’identità del popolo che avrebbe guidato l’impero più grande della storia.
La paura è necessaria per schivare il pericolo, perché irrazionalmente ci spinge ad allontanarci da esso. La paura ci scuote e ci percuote, è una scossa che ci desta dal torpore della nostra spavalderia. Tuttavia, letta in questo senso, la paura rischia di essere un alibi. E lo sapeva bene Umberto Saba:
Nel mio cuor dubitoso sento bene una voce che mi dice: “Veramente potresti essere felice.” Lo potrei, ma non oso.
La paura di essere felici, più pericolosa addirittura di quella della guerra. Non oso, il rischio è troppo, gli ostacoli sono così tanti.
Come ci si salva, allora dalla paura o dal rischio dell’immobilità? come possiamo schivare questi bombardamenti continui? Anche in questo caso, di getto, risponderei come finisco per rispondere ai miei ragazzi, che non lo so, ho anche io tanta paura. Ma poi in realtà sono proprio loro, come accade spesso, a farmi intuire una risposta.
Abbiamo di recente lavorato, in geografia, sul tema delle migrazioni. Come compito di fine unità ho chiesto loro di realizzare delle interviste a persone migranti: emigrate o immigrate, era indifferente. Si sono lanciati nell’impresa con entusiasmo, senza restare inibiti nemmeno per un attimo dal confronto con il diverso. Il mio obiettivo era farli andare oltre quello che si sente al telegiornale, confrontarsi con persone e storie reali, dargli la possibilità di avere un proprio e indipendente punto di vista. Hanno intervistato parenti lontani, il ragazzo fuori dal supermercato, il calciatore straniero della squadra di paese, il compagno immigrato. Ho chiesto loro, a questo punto, perché il diverso ci fa di solito così tanta paura.
“Il diverso fa paura perché non conosciamo l’altro e quello che non conosciamo a volte ci fa paura” è stata una delle loro risposte, tutte su questa linea; così semplici e immediate che mi sono sentita stupida a porre la domanda.
Come scriveva anche Lucrezio, strenuo difensore della razionalità, “pavidis cum pendent mentibus”: l’uomo teme quando si trova in una situazione di confusione, sospeso, a causa dell’ignoranza: insomma, quando non conosce.
Forse la conoscenza, l’informazione, sono davvero uno dei pochi modi possibili per combattere la paura, almeno la paura di quelle cose che possiamo imparare a gestire.
Ci sono poi cose più grandi di noi, come la guerra, come certamente i terremoti, le pandemie. Per quelle, non posso che scomodare il buon Leopardi: penso alla frustrazione dell’Islandese davanti all’algida natura e penso che anche lui, come avrebbe poi fatto invece il Leopardi stesso, avrebbe dovuto capire che l’uomo mortale non può che stringersi in social catena.
1 Paura, Umberto Saba, da Almanacco dello specchio, n.2, Mondadori, 1973.
2De Rerum Natura, Lucrezio, VI, 51.

