#Bianco

#Bianco

Bianca. Pare sia lei, in qualità di aggettivo qualificativo il nome più quotato per la presidenza della Repubblica.

Bianco è la parola con cui voglio iniziare questa rubrica, magari proprio per scongiurare l’ansia della pagina bianca. Niente di pretenzioso, solo una riflessione sulle parole che mi rimbalzano in testa mentre attraverso le mie giornate, mentre ascolto attenta o di sfuggita il brulicare del circostante. Ho deciso di soffermarmici, su quelle parole, di provare a capirle e sviscerarle, ma anche di lasciare che queste inneschino pensieri, un po’ di sano otium in questo continuo e interessato rincorrere.

L’aggettivo bianco, sorprendentemente, non è un’eredità del latino. I latini utilizzavano albus, che abbiamo mantenuto nell’albume, il bianco dell’uovo, ma anche nell’alba, naturalmente. Per i latini il bianco conteneva in sé il senso dello splendere. Albus, infatti, significa anche splendente, luminoso.

Anche blank, il termine germanico da cui abbiamo ereditato il nostro bianco, originariamente faceva riferimento a qualcosa di splendente: black indicava propriamente il luccichio del metallo delle armi, esteso poi al colore più luminoso di tutto l’arcobaleno, quello che in sé ne contiene tutti i colori: il bianco.

Non sorprende che, derivando dal germanico, il campo semantico di riferimento sia quello militare. Il luccichio di un’arma doveva apparire quanto di più confortante e rasserenate, una promessa di vittoria, una sicurezza per la guerra. Quest’idea del bianco e del luminoso come qualcosa di rasserenante perdura. Per Giovanni Pascoli il bianco è conforto, proprio in opposizione alle tenebre, al nero del temporale. Nella poesia Il lampo In un cielo tragico appare una casa bianca bianca, rapido e sfocato conforto nella notte nera.

Il bianco è da sempre associato all’idea di purezza: le lenzuola candide, l’abito della sposa, la morbidezza e la discrezione della neve, l’idea stessa della pulizia. Dante fa arrivare la sua Beatrice a ridosso del Paradiso terrestre coperta di un velo bianco, simbolo della fede e immagine di una donna eterea.

Pare addirittura che la poetessa Emily Dickinson a partire dal 1865, quando aveva 35 anni, scelse di vestire solo in bianco, come a voler ostentare la purezza e la castità delle sue scelte di vita.

Bianco è il colore della pelle nobile, bianco è il colore del privilegio, di quelli che oggi chiameremmo i WASP, colori che tengono il mondo in pugno.

Il bianco tranquillizza. Nel bianco ci sono tutti i colori, non c’è bisogno di scegliere. Il bianco è qualcosa di intonso, immacolato, non ancora sporcato dai colori della vita. Un campo vuoto che lascia aperte tutte le possibilità senza la paura dell’errore.

Eppure, niente come il bianco mi destabilizza. È la bianchezza della balena, una bianchezza che per il capitano Achab diventa ossessione; il colore del male. Melville ci fa vedere un altro bianco, quello degli albini che ci ripugna, il pallore dei morti. La bianchezza diventa l’immagine palese dell’indefinitezza. In quel suo essere contenitore di ogni colore il bianco non è, tuttavia, nessun colore. È il vuoto, e il vuoto, lo sapevano bene nel Seicento, aborrisce. Il vuoto richiede la gravosità della scelta, da che parte cominciare a riempire? Con quale colore?

Ma è essenziale scegliere. È necessario dare colore. Non c’è bianco e non c’è horror vacui che compensi il rosa caldo di un tramonto estivo, il rossore di un imbarazzo, l’oro del grano quando è maturo, il verde nelle ginocchia dei bambini che non temono di cadere, e perfino il nero di certi occhi che si chiudono per ignorare un po’. È con le sfumature che si riempie il vuoto, che si affronta e si placa. È nel grigio sporco della polvere che si deposita nelle nostre giornate accumulate che diventiamo noi.

La scheda bianca è allora forse amica di quella bandiera bianca che cantava tanto bene Battiato, un arrendersi al non sapere e non volere scegliere, un non volersi sporcare, abbandonare il timone e le responsabilità. È lasciarci in preda al bianco di indefinitezza di Achab, quando invece abbiamo estremo bisogno di colore.

E’ questa qualità inafferrabile che rende l’idea della bianchezza […] capace di accrescere quel terrore fino all’estremo. Ne sono prova l’orso bianco polare e lo squalo bianco dei tropici: cos’altro se non la loro bianchezza soffice e fioccosa li rende quegli orrori ultraterreni che sono? […]

Forse, con la sua indefinitezza, la bianchezza adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero dell’annientamento mentre contempliamo gli abissi bianchi della Via Lattea? Oppure la ragione è che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore, quanto l’assenza visibile di ogni colore e nello stesso tempo l’amalgama di tutti i colori, ed è per questo motivo che c’è una vacuità muta, piena di significato, in un gran paesaggio di nevi, un omnicolore incolore di ateismo che ci ripugna? […]

E, andando ancora oltre, ricordiamo che il cosmetico misterioso che produce tutte le tinte del mondo, il gran principio della luce, rimane sempre in se stesso bianco e incolore, e se operasse sulla materia senza mediazione, darebbe a ogni oggetto, anche ai tulipani e alle rose, la sua tinta vuota. […]

E di tutte queste cose, la balena albina era il simbolo.”

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